Tra profezia e realismo

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96 annii altrapagina aprile 2021

Intervista a Marco Gallizioli laureato in Lettere all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e diplomato all’Istituto di Scienze Religiose “Italo Mancini” dell’Università di Urbino, dove insegna Antropologia delle Religioni

 

 

 

A Marco Gallizioli, docente di Storia delle Religioni all’Università di Venezia e di Scienze della Religione all’Università di Urbino, poniamo una domanda frontale.

Per uno studioso delle religioni qual è il significato profondo del gesto di papa Francesco di incontrare in Iraq il leader sciita al-Sistani?

«Dal punto di vista del dialogo interreligioso dimostra sicuramente coraggio e un’inedita capacità profetica. Rivela il desiderio di alcuni grandi capi religiosi di attraversare i limiti, di riscoprirsi profeti. Nel mondo contemporaneo c’è bisogno di gesti profetici, di farsi interpreti dei tempi, rovesciando schemi, diventando capaci di “traguardare”, nel senso etimologico di guardare oltre i propri limiti, per essere fedeli alla verità, per “servire” quella verità assoluta che non è mai interamente data, ma che si pone sempre un passo avanti rispetto a quello che è dato comprendere».

Il coraggio non è solo di papa Francesco, ma anche di al-Sistani?

«Troppo spesso noi siamo cattolico-centrati e vediamo la grandezza del passo solo nel Papa. C’è una grandezza anche dall’altra parte, soprattutto nel dire che Dio e violenza non possono essere posti in relazione di causalità, non stanno mai in un’equazione. L’aver detto questo è un segno di grande profezia. Bisogna anche ribadire, ed essi lo hanno fatto implicitamente, che il mistero della differenza religiosa va rispettato, anche se non compreso, perché profetico. Se lo fanno i grandi capi religiosi possiamo farlo anche noi credenti. Quindi osserviamo, in un tempo povero di pensiero, dei segni fondamentali, anche a livello simbolico».

Dopo l’incontro ad Abu Dhabi Francesco persegue il tentativo di creare un dialogo tra sunniti e sciiti? È un progetto religioso che ha connotazioni politiche. Quali sono a suo parere gli ostacoli su questo percorso?

«Non c’è soltanto un dialogo da costruire in senso assoluto tra sciiti e sunniti, ma anche dentro lo sciismo, tra sciiti iracheni, sciiti iraniani. È un dialogo doppiamente difficile, anche perché le ferite sono ancora presenti e profonde. Risalgono al regime sunnita di Saddam Hussein, al dominio dell’Isis, quindi da un lato ci sono rapporti difficili all’interno della visione sciita tra i due Paesi, dall’altro ci sono gli ostacoli esterni, perché fa comodo alle potenze occidentali, alla Cina e alla Russia potersi offrire come interlocutori in una zona centrale dello scacchiere geopolitico mondiale. Dentro l’islam fa comodo ai profeti del fondamentalismo che ci sia tensione e che si mantenga con toni di astio e di violenza.

Richiamando le religioni ai loro compiti di guida spirituale ed etica è come se il Papa le invitasse a emanciparsi da azioni meramente politiche, richiamandole all’impegno sociale. E questa è, paradossalmente, un’azione politica perché le religioni vengono rimesse come baricentro di un percorso esperienziale, teologico, spirituale e in questo diventano eversive. È un invito a fare politica dal punto di vista etico, per cambiare il mondo, dall’interno della coscienza dell’uomo, senza armarsi di bandiere politiche».

Nella piana di Ninive il Papa ha parlato di collaborazione tra le fedi, ricordando la figura di Abramo. Gli uomini contemporanei sono ancora capaci di guardare il cielo oppure sono impigliati nella violenza e nell’odio reciproco?

«Credo che gli esseri umani siano ora, come sempre, capaci di essere terribilmente grandi e terribilmente piccoli, capaci di guardare oltre, di guardare in alto, ma anche di rimanere impigliati nelle miserie più avvilenti. Anche le religioni hanno questo doppio movimento al proprio interno. Lo stesso pontificato di Francesco, così profetico in certi campi, in altri deve fare i conti con una base piuttosto conservatrice e deve quindi arretrare su temi che scaldano il mondo cattolico tradizionale: coppie di fatto, omosessualità, questioni di genere. Per un passo che si fa in una direzione ce ne sono altri che non vengono fatti. C’è sempre un’ombra che oscura la luce in questi grandi personaggi religiosi. Le religioni stesse rappresentano un compromesso. Violenza e odio assumono tanti colori, non necessariamente quelli delle armi. Perciò questa è una domanda a cui non si può rispondere: noi esseri umani non siamo solo bene o solo male. Le nostre azioni sono complesse e non possono essere identificate con un solo colore».

Papa Francesco è rimasto scosso dalle rovine di Mosul e di Qaraqosh. È ancora possibile una ricostruzione in una terra così martoriata? E a quale prezzo?

«Grazie a questo viaggio l’orrore compiuto dall’Isis è apparso nella sua crudezza e insensatezza e rappresenta l’ombra di cui parlavamo prima, la parte dell’essere umano che guarda in basso, che odia, quando non è guidato da quella che Dante definiva “virtute e conoscenza” e non è guidato dall’empatia, dal sentirsi consanguineo, dal pensiero che passa attraverso la ragione e il riconoscimento del valore. Quello che mi ha colpito del discorso da lui tenuto nella piana di Ninive è quando ha affermato che la bellezza non è monocromatica. Spesso noi pensiamo che la bellezza sia un concetto che abbiamo in mente e finiamo per ridurla persino a visioni orripilanti. La bellezza è da cercare, non solo da conservare. È qualcosa che si può costruire, nonostante l’orrore, riconoscendo che il terrorismo non è mai una soluzione, come non lo è mai la vendetta. La Storia ce l’ha insegnato a più riprese, ma l’umanità fa fatica a comprenderlo. Bisogna mettersi nei panni di chi ha subito certe violenze, la parola ‘perdono’ suona un po’ sciocca sulle labbra di chi non ha nulla da perdonare, perché il filo spinato e le macerie parlano ancora di sangue, di chi lo ha subito sui propri vestiti o sulla propria coscienza. Penso, comunque, che la ricostruzione sia sempre possibile. La Storia dimostra che si può essere più grandi di questi sentimenti di vendetta e di violenza, occorre tuttavia elaborarli e non passare rapidamente alla categoria del perdono».

La minoranza cristiana irachena è come schiacciata dalla violenza dell’Isis. È destinata solo a fuggire? La presenza del Papa è un segno di speranza, ma anche un invito alla riconciliazione e al perdono?

«Sinceramente non saprei rispondere a questa domanda. Ritengo che la presenza del Papa sia stata un segno di speranza. Il perdono che sarebbe alla base della ricostruzione è un altro conto. Ebraicamente non sta a noi stabilire fino a che punto bisogna perdonare, sono le persone che vivono in quei luoghi e hanno vissuto quelle esperienze a poter compiere quel passo. Il compito delle religioni è dire all’uomo che si può sempre ritornare all’umano, come sosteneva Ulrich Beck nel suo ultimo testamento Il Dio personale, rifacendosi a Etty Hillesum e proponendo la sua idea. Significa disseppellire l’umano dal cuore dell’uomo, perché quell’umano è la vera scintilla divina. Etty Hillesum l’ha detto guardando in faccia l’orrore, e credo che questa sia l’unica cosa da dire in questo momento. Altrimenti questi scempi continueranno, qui o in altre parti del mondo. Le religioni istituzionali sono le prime a doversi riconvertire all’umano; questo è il messaggio dato da papa Francesco, ma non so se oggi le religioni siano veramente capaci di sacrificare se stesse. Oggi siamo in una forma di involuzione, non abbiamo ancora digerito il pensiero dei grandi del passato, la ricerca teologica è stata sospesa per tanti anni e siamo sprovvisti di un pensiero adeguato di fronte alla modernità». ◘

Di Achille Rossi