Come uscirne
L’ambiente è lo specchio delle nostre vite, così come le nostre vite sono lo specchio dell’ambiente. Questa interrelazione tra esseri viventi e ambiente, in particolare l’impatto di noi umani su di esso, è qualcosa di non trascurabile, dobbiamo farci i conti, a partire da ognuno di noi. Ma mai come in questo ultimo anno, una tale consapevolezza ha avuto riprove sperimentali difficili da ignorare. La pandemia da Covid-19 ci ha spinti a cercare soluzioni per attraversarla, ma ci ha impo- sto anche di studiare quali siano le cause a monte di una trasformazione repentina e irreversibile del mondo come lo conoscevamo. In particolare, occorre studiare quali siano le possibili correlazoni tra l’inquinamento atmosferico e la propagazione di quei virus che attaccano il sistema respiratorio di una popolazione. Si tratta di connessioni da investigare su diverse frontiere, integrando vari ambiti della ricerca scientifica, non ultima la fisica.
Proprio dai fisici cominciano ad arrivare alcune risposte. I campi di ricerca sono di diverso tipo, dalla fisica delle particelle a quella dell’atmosfera. Una prospettiva importante arriva da un recente articolo intitolato “La fisica della formazione di particelle e del loro depositarsi durante la respirazione”, a firma del fisico Bruno Buonanno e dell’epidemiologa ambientale Lidia Morawska, pubblicato nella rivista Nature. I due sono colleghi al Laboratorio Internazionale per la Qualità dell’Aria e la Salute (ILAQH), in Australia. Nella premessa al loro elaborato leggiamo: «Sebbene l’impatto sulla salute dell’inalazione di particelle sia ben noto, il rischio creato dall’uomo come fonte di particelle respiratorie trasportatrici di patogeni nella vita di tutti i giorni è stato raramente riconosciuto fino alla pandemia Covid-19. Vengono ora poste domande fondamentali sulla fisica delle particelle cariche di virus provenienti dalla respirazione umana». Una fra tutte riguarda il processo di aerosolizzazione. Immaginiamo di rappresentare un soggetto infetto che respira, come se fosse una candela accesa: la cera sarebbe quello che gli scienziati chiamano droplets, cioè goccioline cariche di virus di grandi dimensioni (il cui diametro supera i 5 millesimi di millimetro) rilasciate da individui infetti attraverso un colpo di tosse o uno starnuto; il fumo della candela è invece il cosiddetto aerosol (fatto di particelle di diametro minore di 5 millesimi di millimetro), che si forma con il trascinamento del virus dalla superficie dei polmoni e viene rilasciato durante l’emissione di fiato che avviene parlando. I droplets vengono fermati dalla resistenza dell’aria oppure cadono al suolo e si seccano, mentre le particelle di aerosol, anch’esse cariche di virus, potrebbero rimanere nell’aria per ore ed essere disperse dal vento.
Quanto è probabile che questo meccanismo possa contribuire al contagio? Per rispondere a questa domanda occorre considerare processi che riguardano la fisica dei flussi aerei. Un buon modello per l’apparato respiratorio è quello di un sistema aperto in transizione, con un flusso in entrata e uno, in parte generato all’interno del sistema, in uscita. La forma di questo modello si può approssimare a un albero ramificato di tubi dal diametro che diminuisce man mano che si ramifica. Con questo modello si possono studiare i meccanismi di inalazione ed esalazione. I modelli ingegneristici provano a spiegare quello che avviene all’interno dei polmoni, ma siamo ancora lontani dall’avere delle certezze. «Sappiamo di più sulla superficie di Marte da immagini dirette, di quanto sappiamo sulla superficie del polmone di una persona vivente». Una volta emesse dal sistema respiratorio, però, le particelle aumentano la concentrazione dell’agente patogeno in ambienti chiusi e, di conseguenza, il rischio di infezione per le persone suscettibili esposte. Buonanno e Morawska, già a marzo del 2020, erano stati capofila di una lettera firmata da 238 scienziati, che invitava l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a non trascurare un’analisi seria della diffusione del virus attraverso l’aerosol. All’inizio della pandemia, infatti, l’OMS si era espressa indicando solo le goccioline come veicoli di contagio, manifestando seri dubbi sul fatto che la diffusione avvenisse anche attraverso l’aerosol. A un anno di distanza, invece, è la stessa OMS a pubblicare una road map con indicazioni precise sulle misure da prendere per migliorare l’aereazione dei luoghi chiusi e ridurre così il rischio di trasmissione del contagio.
Tornando all’esempio della candela, immaginiamo che in un ambiente chiuso ci siano un certo numero di candele, ovvero di soggetti che respirano e parlano. Le mascherine e il distanziamento servono a impedire la propagazione dei droplets, ma come misurare la concentrazione di aerosol e quindi la carica virale? Attraverso il parametro dell’anidride carbonica per esempio, che è un buon indicatore della concentrazione di aerosol, cioè di quanto fumo le candele emettono. Valori di CO2 oltre una soglia limite possono essere collegati a sensori connessi all’apertura delle finestre in ambienti chiusi. Ma una volta aperte le finestre, di cosa è composta l’aria che arriva dall’esterno? I fisici dell’atmosfera si occupano di studiare la composizione delle particelle dell’aria che respiriamo dal punto di vista degli inquinanti come le cosiddette polveri sottili. Anche in questo ambito il Covid-19 ha stimolato studi che cominciano a proporre qualche risposta, o per lo meno a porre domande che stimolino nuove ricerche. ◘
di Marta Cerù