Scrivo queste righe mentre non lontano da qui, nella città dell’Aquila, ancora visibilmente squarciata dal terremoto, si sta preparando per l’ultima settimana di agosto – spero che quest’anno tutto si svolga in maniera più sobria per la pandemia – un fitto programma di concerti, fuochi artificiali, sbandieratori, trombe, tamburi, uomini d’arme, “corteo della Bolla”. Un corteo carnevalesco per ricordare in maniera goffamente folkloristica uno dei gesti più rivoluzionari e profondi di Celestino V: la Perdonanza.
Egli aveva intuito che occorreva offrire riconciliazione a tutti e non solo a quelli che possedevano una borsa piena di denaro o beni da lasciare alla Chiesa in cambio della remissione dei peccati.
Ecco allora un primo anello di congiunzione tra Silone e fra’ Pietro: i poveri, quei poveri che lo scrittore abruzzese chiamava “cafoni”, accomunandoli sempre, in una sorta di globalizzazione della povertà, ai coolies, ai fellahin, ai peones, ai mugic, ai campesinos e che l’eremita del Morrone accoglieva e sfamava nei suoi monasteri non senza aver prima imposto, in nome del Vangelo, ai più ricchi e privilegiati di condividere le loro ricchezze con i meno fortunati.
A proposito di questa categoria vastissima che non comprende soltanto coloro che non hanno un piatto di minestra per sfamarsi, mi piace riproporre una pennellata fulminante di Silone, scovata nei suoi lontani ricordi di bambino. È l’ammonimento di suo padre al passaggio di un carcerato tra due carabinieri: «Non si deve deridere mai un detenuto: prima perché non può difendersi, poi perché forse è innocente e in ogni caso perché è un infelice».
Altro tratto unificante di queste due persone, ancora poco scandagliate nelle loro ricchezze profonde, è la loro assunzione di responsabilità.
«Io sono un povero cristiano qualsiasi e come posso ardire di diventare il vicario di nostro Signore tra gli uomini?» dice fra’ Pietro agli inviati del Conclave. Avverte il senso del dovere in quel momento difficile della storia dell’umanità e della Chiesa. E accetta. Per poi rinunciare, dopo essersi accorto che la sua persona veniva strumentalizzata da una istituzione radicata a interessi terreni e lontani dal Vangelo.
Un’avventura molto simile viene vissuta da Silone nel luglio 1931 quando, lasciato il partito, ne viene espulso: «In un attimo ebbi la chiarissima percezione dell’inanità di una furberia, tattica, attesa, compromesso. Non aveva più senso star lì a litigare».
Ignazio Silone e Celestino V, due perdenti, due dimissionari dall’incarico, due discesi dal piedistallo. Due “falliti” secondo il giudizio e la logica dei potenti. Ma ambedue sempre “risorgenti”.
Silone rifiuta di essere il portavoce dell’élite intellettuale del partito. Fra’ Pietro non vuole sottostare ai diktat della curia papale. Ad ambedue interessa unicamente la difesa degli ultimi, degli insignificanti.
E in questo senso sono ambedue “eretici”. Eretico è colui che si separa, perché ha scelto (dal greco airèo) un’altra strada, è colui che per seguire la coscienza è costretto a disobbedire.
Ambedue alla ricerca di “altro”. Fra’ Pietro nel Vangelo, Silone nella sua coscienza. Egli è convinto che “vi saranno sempre gruppi di uomini che non si contentano del bere e del mangiare”.
Ambedue, uscendo l’uno da un potente partito, l’altro dalla carica più importante che si possa concentrare nelle mani di un uomo, in fondo hanno tenuto presente il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, in cui Cristo giudice, identificandosi con tutti gli emarginati e i cafoni della Storia, chiederà non la tessera di un partito e nemmeno il certificato di battesimo, ma se gli è stato dato da mangiare, da bere, da vestirsi, se è stato accolto a braccia aperte e non respinto verso i luoghi d’origine.
Ambedue sono dalla parte dell’uomo e non del potere. Ambedue hanno diffuso a piene mani tanto lievito morale.
La povertà, condizione essenziale per essere liberi, è un altro elemento che accomuna questi due “poveri cristiani”.
Una figura minore de L’avventura di un povero cristiano di Silone è fra’ Clementino da Atri, al quale sono affidate le parole chiave dell’utopia celestiniana, che è poi parallela a quella siloniana: «Povertate è nulla avere, è nulla cosa poi volere e ogni cosa possedere in spirito di libertate».
Ambedue sono vissuti “in povertate” e hanno difeso fino all’ultimo respiro lo “spirito di libertate”.
«Non vorrei vivere secondo le circostanze, l’ambiente e le convenzioni materiali ma, senza curarmi delle conseguenze, vorrei vivere e lottare per quello che a me apparirà giusto e vero». È quanto ha progettato e realizzato Ignazio Silone. È quanto ha offerto, nella trasparenza della sua vita vissuta nella più rigida penitenza eremitica, fra’ Pietro del Morrone.
Quest’ultimo, da limpido uomo di fede; Silone, alla ricerca continua di quella luce, anche se “ufficialmente” non credente. Ambedue, però, sicuramente credibili. E per questo hanno lasciato il segno.
Ma il tratto unificatore più marcato tra queste due “grandi anime” l’ho scovato in una pagina intensissima di Silone di un suo scritto quasi sconosciuto, Memoriale dal carcere svizzero: «Come scrisse san Bernardo, vi sono degli uomini che Iddio rincorre, perseguita, ricerca e, se li trova e li afferra, li strazia, li fa a pezzi, li morde, li mastica, li ingoia e digerisce e ne fa creature del tutto nuove».
Ho colto, in queste parole illuminanti e sofferte di Secondino Tranquilli, una fede profonda. Quella stessa fede che ha sconvolto la vita e ha guidato i passi di Pietro Angelerio.
Fra’ Pietro e Silone sono due uomini che ci insegnano con la loro scelta di vita che al “dominio” è inutile fare “opposizione”. Quel che occorre è il rifiuto, la resistenza, la testimonianza, una fede. Sempre. ◘
di Pasquale Jannamorelli