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DEMOGRAFIA. L’Umbria e il gelo demografico

silvia romano2

Parlare di demografia in Umbria è sempre fonte di disagio: ogni volta che l’Istat rende noti i dati sull’andamento demografico della nostra Regione, non ci resta che constatare che la situazione è peggiorata, proprio come diceva la proiezione precedente. Di conseguenza tra una proiezione e l’altra non si fa altro che prendere atto della situazione e stupirsene senza ragione alcuna, in quanto tutto ciò che accade è ampiamente previsto e annunciato ed è frutto di politiche sbagliate e superficiali perpetrate nel tempo. Ciò che semmai stupisce, consiste nella rapidità con cui il fenomeno prende sostanza, nel peggioramento dei dati e negli aspetti che lo caratterizzano.

La perdita di ulteriori 5.000 residenti e la fertilità delle donne, stabile alla media di un figlio ciascuna, non fanno che confermare uno stato delle cose noto da tempo, che è quello del declino demografico. Lo stupore di politici e opinionisti appare ancora una volta fuori luogo e assolutamente inutile. Il tema purtroppo non è stato avvertito in tempo e nulla si è fatto per arrestarlo: oggi, oggettivamente, l’Umbria non sembra avere le condizioni minime per comprenderlo né tantomeno per affrontarlo.

Il fenomeno registrato in Umbria è solo uno spaccato, più grave, di una situazione nazionale di per sé gravissima che vede avanzare l’aspettativa di vita e ridursi il numero delle nascite con il risultato che i morti sono oltre il doppio dei nati.

La pandemia, che ha colpito per lo più gli anziani, sembra aver ridotto temporaneamente la speranza di vita di circa un anno, ma l’età media degli umbri, come degli italiani, si attesta intorno ai 47 anni, certificando lo stato di una popolazione decisamente vecchia.

Anche il premier Draghi ha rilevato la gravità della situazione, mettendo in evidenza lo squilibrio economico e la sostenibilità del welfare, che nel perdurare di una tale situazione non potranno che aggravare le condizioni degli italiani.

Draghi, inoltre, ha affrontato il problema dal punto di vista del lavoro, dei servizi, del sostegno alla maternità. Tutte cose già sentite e che non trovano nemmeno nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza ) quella armonizzazione che potrebbe determinare un risultato sicuro.

Quanto si cerca di fare in termini di produttività e di crescita non è propriamente in linea con il fronte degli aiuti e delle assistenze, ma potrebbe essere comprensibile perché nella visione europea la coesione sociale è conseguenza della crescita economica e, quindi, prima si deve creare ricchezza e poi semmai distribuirla, con una nuova attenzione alla transizione ecologica e al ritardo tecnologico (il digital divide!) e alla coesione sociale.

Tale impostazione, però, potrebbe non essere sufficiente, in quanto limitata ad un’analisi inadeguata e una visione economicista, che non sembra tenere conto dei forti cambiamenti sociali e, soprattutto, della condizione e delle aspettative dei giovani, in particolare delle giovani donne e del loro approccio all’idea di famiglia e, soprattutto, di maternità.

Il fenomeno sembra essere sottovalutato sia dalla politica sia dal mondo della cultura, che continuano a girare intorno a vecchi stereotipi, ostinandosi a difendere visioni tradizionali di famiglia, convivenza e genitorialità, molto lontane dalla sensibilità delle giovani generazioni.

La società non ha fatto altro che plasmarsi intorno a un modello di sviluppo economico e su quello ha costruito specifiche modalità di convivenza sociale: come per il mondo agricolo dei nostri bisnonni era funzionale la famiglia numerosa - le braccia alla terra -, così per la rivoluzione industriale e l’urbanizzazione tumultuosa lo è stato il nucleo familiare.

Oggi, in tempi di liberalismo individualistico, super tecnologico, super veloce e super competitivo, la soluzione migliore è la massima flessibilità, unita alla concorrenza al ribasso, alla disponibilità e alla competenza. Tutti temi in contrasto con l’idea della famiglia, peggio ancora con la famiglia del “mulino bianco”.

L’ingresso massiccio della donna nel mondo del lavoro, in tutte le professioni e posizioni, è stata una novità prorompente ancora non pienamente realizzata e ha contribuito a cambiare in profondità la relazione delle donne con la maternità, che in una società individualistica ed estremamente competitiva mette in contrasto la carriera e la libertà personale con i carichi e gli affetti familiari.

In questa società individualizzata, incapace di cogliere il cambiamento, segnata dalla separazione, dalla specializzazione e dalla velocità esasperata, ripiegata nell’individualismo egoista e cinico, dove impera la competizione più feroce e violenta e scompare ogni forma di umanità e di solidarietà, è davvero difficile pensare ad un’inversione di tendenza dell’andamento demografico.

Quello di cui parliamo è un problema dell’Occidente, perché globalmente la popolazione è in aumento, e dei modelli e privilegi costruiti e consolidati nel tempo che la crisi demografica potrebbe rimettere in discussione.

Nonostante tutto, comunque, anche in Occidente ci sono esempi positivi di Stati che sono riusciti a frenare la caduta demografica e invertire la tendenza, come è successo in Francia, nei Paesi scandinavi e in Germania, che avviando nel tempo importanti politiche sociali di accoglienza e d’integrazione sono riusciti ad ottenere risultati interessanti sul fronte dell’equilibrio demografico.

Per l’Umbria, invece, la situazione è molto grave perché la tendenza al peggioramento demografico appare inarrestabile, le condizioni e, soprattutto, le prospettive di lavoro (servizi, crescita, opportunità) risultano molto preoccupanti. Senza dire che le idee sovraniste, conservatrici, xenofobe, identitarie che ispirano i politici oggi alla guida dell’Umbria sono in netto contrasto con il modello di società aperta, solidale e inclusiva che appare essere l’unica opportunità per cercare di invertire la grave tendenza impressa dal gelo demografico e dal declino in cui siamo sprofondati. ◘

istat

Ulderico Sbarra