Conflitto Israele/Palestina: una guerra che non trova soluzione
Il Papa ha detto nel suo Regina coeli del 16 maggio a proposito della guerra in Palestina, di cui oggi è in corso una fragile tregua, che la morte dei bambini (in così gran numero uccisi a Gaza) “ è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere”.
Abbiamo già scritto che la tragedia palestinese non ha una soluzione politica ma religiosa. Infatti il rifiuto israeliano ad ammettere i diritti dei palestinesi e la guerra reiterata che ne deriva hanno la loro origine in una statualità fondata di fatto su una presunzione religiosa: e cioè che tutta la terra di Palestina sia stata assegnata da Dio al popolo ebreo con esclusione di ogni altro. Ne consegue che la soluzione del conflitto israelo-palestinese sta nel fatto che da questo assoluto religioso ci si converta. Ciò non vale del resto solo per il Medio Oriente: oggi è più che mai necessario che tutti gli Stati e le relative ragion di Stato non si arroghino una sovranità assoluta, e che la Terra unita e la sua Costituzione siano fondate sulla pluralità dei popoli, delle religioni e delle lingue. Questo è il nostro progetto e la nostra speranza civile e politica.
Per Israele questo non significa solo che venga meno la violenza di Netanyahu, ma che venga meno quella dello Stato stesso a partire dal superamento della errata identificazione tra lo Stato fondato nel 1948 e l’ebraismo. Ciò comporta un processo di conversione che per il cristianesimo è durato 1500 anni e che con papa Francesco si è ormai compiuto.
Per un superamento della natura assoluta dello Stato di Israele (che con la legge sullo Stato-nazione che riserva l’autodeterminazione ai soli Ebrei ha abbandonato il modello democratico) non si dispone però di un tempo tanto lungo. Non ne dispone la Terra, non ne dispongono i palestinesi, ma non ne dispone nemmeno lo stesso Stato di Israele, il cui diritto alla sicurezza è fuori discussione, ma che non può continuare a fondare la garanzia del proprio futuro sull’onnipotenza militare e l’acquiescenza incondizionata ad ogni sua scelta da parte dell’intera comunità internazionale, che già si sta incrinando perfino negli Stati Uniti. Per lo Stato di Israele sarebbe un suicidio, ma lo sarebbe per la stessa fede del popolo d’Israele, incompatibile con questa gestione del potere. Fin dall’inizio del resto esso era stato ammonito a non legarsi mani e piedi ad uno Stato, ad un re: gli aveva detto infatti il Signore attraverso il profeta Samuele: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi” (1Sam 8).
Il popolo messianico non ascoltò allora il suo profeta e ancor meno lo fa oggi, se non in sue piccole minoranze, come vediamo anche in Italia in tanti esempi illustri o nella lettera di un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani intitolata Not in our names, non in nostro nome. Il pericolo è troppo grande, e non solo per Israele, ma per il mondo tutto che rischia la distruzione, se pace e Costituzione non vengono instaurate. E il rischio del suicidio non è solo dello Stato di Israele, ma anche del Dio di Israele, di cui è in tal modo fraintesa la promessa; un Dio causa di tanta violenza non potrebbe infatti che uscire dal senso comune e ciò lo toglierebbe non solo agli Ebrei, ma anche ai musulmani e ai cristiani, poiché è lo stesso Dio. Per questo abbiamo detto che il nodo politico sta in una conversione religiosa, raggiunge l’ambito del pensiero sul divino.
Il superamento dell’ibridismo politico-religioso deve avvenire ovviamente anche per l’Islam, nel quale, come ci ha mostrato il terrorismo islamista, il pericolo è massimo. Qui del processo per uscirne sono state poste le premesse con il patto firmato ad Abu Dhabi nel febbraio 2019 sulla fraternità umana, con la lettera ad Al-Baghdadi del 2014 di 126 tra i maggiori sapienti ed accademici sunniti e con gli incontri dei due ayatollah Ahmad-al-Tayyib e Al-Sistani con papa Francesco. ◘
di Raniero La Valle