Editoriale
Lo scontro tra il governo centrale etiope e il Fronte di Liberazione del Tigray, che dura da otto mesi, non ha nemmeno sfiorato l’opinione pubblica mondiale. La situazione è fuori controllo e assistiamo a una grave emergenza umanitaria che ha spinto migliaia di persone a fuggire in Sudan, mentre i militari hanno bloccato l’accesso alle vie di comunicazione impedendo la distribuzione di cibo e di aiuti nella regione. Ormai l’80% della popolazione rischia di morire di fame, anche perché i raccolti sono stati devastati dall’infestazione delle locuste e dal persistere della guerra. Quello che nelle intenzioni del governo avrebbe ristabilito l’ordine nella regione ribelle si è trasformato in una guerra civile terribile, di cui fa le spese soprattutto la popolazione civile sottoposta a violenze e stupri. Lo ha dichiarato senza mezzi termini un’agenzia dell’Onu: «Non c’è dubbio che la violenza sessuale sia usata in questo conflitto come arma di guerra, come mezzo per umiliare, terrorizzare e traumatizzare un’intera popolazione oggi e la generazione successiva domani».
Da settimane le denunce di massacri a danno dei civili si moltiplicano. L’aviazione etiope ha bombardato in questi ultimi giorni persino un mercato, dove sono state uccise decine di persone. «Ci sono 45 feriti bloccati e in pericolo di vita - spiega un funzionario del pronto soccorso di Macallè - fra i morti c’è un bambino: l’ambulanza che lo trasportava nel capoluogo è stata bloccata per due ore ed è morto per strada».
Qualche giorno fa il patriarca della Chiesa ortodossa etiope ha accusato il governo di genocidio contro il popolo del Tigray: «Non so perché vogliono spazzare via la gente del Tigray dalla faccia della terra». Attualmente la situazione appare molto fluida: l’esercito federale è in ritirata dopo le pressioni internazionali, mentre i ribelli hanno ripreso Macallè. Dopo che l’Etiopia si è impantanata in una guerra senza senso occorre cessare il conflitto e ricorrere alla politica. ◘
di Redazione l'Altrapagina