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L'Isis non è sconfitta

IRAQ. Reportage dall’ospedale di Amiriyah al Falluja (Iraq), villaggio a una dozzina di chilometri dalla Falluja dell’Isis

silvia romano2

Lei è Josi e si capisce subito, a guardarla, che non è irachena, ma viene dall’India. Arrivando all’ospedale di Amiriyah al Falluja, villaggio a una dozzina di chilometri dalla Falluja dell’ISIS, tutto mi sarei aspettata fuorché trovarci un’infermiera indiana. 

Ma a pensarci bene, l’ospedale di Amiriyah al Falluja - lo Stato islamico sull’altra riva dell’Eufrate  sembra di toccarlo - è pieno di persone che non dovrebbero essere lì.

Non dovrebbe essere lì neanche Omar, che ha cinque giorni e riposa sereno nell’incubatrice. Non avrebbe dovuto esserci, perché la mamma di Omar è di Falluja e sapeva bene che andandosene non sarebbe più potuta ritornare.

Chi lascia una città nelle mani dell’ISIS, non ci torna. Punto. Ma la sua era una gravidanza complicata, ha scelto la vita – la vita di Omar – e ha lasciato Falluja. Venendo a partorire  prematuramente nell’ospedale di Amiriyah.

Non dovrebbe essere lì nemmeno il direttore dell’ospedale, Mohammed Jalil. Non dovrebbe esserci perché, con una laurea in Gran Bretagna, la moglie e quattro figli mandati  ad Amman, i genitori nella Repubblica Ceca, dove commerciano in cristalli di Boemia e il fratello che tutti i giorni gli telefona, per dirgli che in Iraq c’è rimasto solo lui, c’è davvero  da chiedersi cosa aspetti ad andarsene. E glielo chiedono anche gli sms che gli manda l’ISIS, con la minaccia: o chiudi l’ospedale, o quando arriviamo sarai il primo a cadere. 

2 l isis non e sconfitta mese lugllio 2021Un biglietto aereo per Amman, o per Praga, il Dottor Mohammed Jalil potrebbe certo permetterselo, ma mi ha spiegato che se lui va via, l’ospedale chiude, quindi non può andarsene. All’eroismo bastano parole semplici per rivelarsi.

Neanche Josi dovrebbe essere lì. Perché sino a un mese fa lavorava nell’ospedale di Ramadi, proprio quello dove, quando la città è caduta nelle mani dello Stato islamico, gli allegroni con la barba e i kalashnikov si sono fatti il solito filmino, con loro che razzolavano nelle corsie dell’ospedale. Josi è riuscita a scappare prima che ci entrassero: se il manuale del perfetto jihadista include, infatti, tra le poche deroghe al divieto di lavoro per le donne quella di infermiera, gli allegroni incontrando una straniera  nell’ospedale di Ramadi probabilmente non l’avrebbero presa bene. Josi lo sa. E per questo è scappata. 

Fuori d’intervista mi ha confessato:  reggo un altro anno perché di questo denaro ho bisogno, ma poi via. Però poi si è messa in posa davanti all’incubatrice del piccolo Omar  e si è fatta fotografare. 

Che poi, a dirla tutta, neanche io avrei dovuto esserci. Queste erano le mie due settimane di ferie, il piano era una vacanza a Creta. Ma si sa come è l’Iraq: il visto che tarda ad arrivare, i permessi per le riprese... Le date non sono coincise e alle palme di Creta si sono sostituite quelle di Amiriyah al Falluja. Non che mi lamenti: sono l’unica ad aver avuto una reale possibilità di scelta.

E infatti  sono felice di esserci andata, all’ospedale di Amiriyah al Falluja. Con il dottor Jalil, che potrebbe essere in Giordania a giocare con i suoi 4 bimbi e invece rimane, a far venire al mondo  i bimbi degli altri; con la mamma di Omar, che si è messa in viaggio quando ha capito che non aveva alternative e lasciando – immaginiamoci come – la  Falluja dell’ISIS è arrivata sin qui; con Omar, che è un soldo di cacio prepotentemente venuto alla vita, questa vita.  E con Josi. Che non ce la fa più, ma intanto va avanti e sorride.

Felice, sì. Felici tutti. Perché, come ho già scritto una volta,  è bella la diversità del mondo. ◘

di Lucia Goracci


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