Scienza. Covid-19: ecco quali sono i fattori di propagazione del contagio
A partire dagli inizi del Novecento, la fisica delle particelle ha scatenato una rivoluzione che si è propagata in ogni ambito del pensiero scientifico e filosofico. L’atto della misura introduce una perturbazione sull’oggetto della misura stessa, ovvero, la misura non riguarda una realtà oggettiva ma una relazione tra la realtà e lo strumento di misura. Si tratta di un principio che non può essere ignorato dalla scienza, a maggior ragione da chi si occupa di ambiente. Ovvero l’ambiente non può essere visto come qualcosa di separato da chi lo abita, così come non si possono ignorare gli effetti perturbativi dovuti alla presenza di noi esseri umani sul pianeta che ci ospita.
In questo anno di pandemia da Covid-19 sono emerse varie questioni legate ai meccanismi di propagazione del virus, alle cause a monte e ai fattori che ne facilitano il contagio. Per trovare risposte alcuni fisici si sono occupati di creare modelli per rappresentare l’apparato respiratorio umano (vedi articolo nel numero del mese di maggio 2021) e le particelle che vengono inalate ed esalate. D’altra parte l’ambiente in cui respiriamo varia a seconda delle attività umane presenti, risultando più o meno inquinato, non tanto per la presenza di virus, quanto per le concentrazioni di particelle chiamate polveri sottili o di quei gas come il biossido di azoto o l’ozono che, a seconda del contesto e delle quantità, sono agenti più o meno inquinanti. Ad aprile 2020, un articolo nella rivista ‘Atmosphere’, a firma di due fisici dell’atmosfera, che lavorano presso l’istituto Cnr-Isac, Francesca Costabile e Daniele Contini, aveva posto la seguente domanda: “Qual è l’influenza dell’aerosol atmosferico e, più in generale, dell’inquinamento atmosferico, nello stimolare effetti sistemici indiretti (legati a meccanismi di pro-infiammazione e ossidazione dei polmoni e processi di alterazione immunologica) aumentando la vulnerabilità della popolazione al Covid-19?”
La rivista è un mensile della comunità scientifica, sotto l’ombrello del Mdpi, ovvero “Multidisciplinary Digital Publishing Institute”, e lo studio presentato riguardava l’analisi dei possibili legami tra l’incidenza del contagio e la presenza in atmosfera di concentrazioni più o meno rilevabili di polveri sottili, ovvero quelle particelle, dal diametro dell’ordine dei millesimi di millimetro (indicate con la sigla PM2,5, PM10), capaci di penetrare a diverse profondità dell’apparato respiratorio, dove danneggiano i tessuti e indeboliscono le difese immunitarie. Le loro concentrazioni aumentano nelle aree altamente industrializzate, ad alta densità di attività zootecniche, cioè dove risiedono allevamenti intensivi di vario tipo, e nelle zone metropolitane.
Un’ipotesi ragionevole è che i virus, avendo dimensioni una decina di volte più piccole del particolato fine, si coagulino sulla superficie delle particelle e queste diventino una sorta di mezzo di trasporto che ne facilita la diffusione, un ‘vettore’ come dicono i fisici. L’effetto si aggiungerebbe alla trasmissione del contagio che avviene da individuo a individuo. Si tratta di un’ipotesi ancora non testata, a causa della necessità di studi epidemiologici che, al trascorrere del tempo, tengano conto di come un’alta concentrazione di particolato in atmosfera causi una maggiore incidenza di problemi generici dell’apparato respiratorio, nonché un aumento dei valori di mortalità.
L’Agenzia Europea Ambiente (Eea) già da alcuni anni include nel rapporto annuale sulla qualità dell’aria (Eea, Air Quality in Europe) studi che mostrano come la mortalità in eccesso sia correlata a tre parametri ambientali, il PM2.5, il diossido di azoto (NO2) e l’ozono (O3). Sulla base di questo, visto che un’alta concentrazione di particolato in atmosfera causa una maggiore incidenza di problematiche legate all’apparato respiratorio in genere, virus come il Covid-19 infettano più facilmente e con conseguenze più gravi soggetti già compromessi in questo senso.
A oggi quindi risulta ancora difficile accusare le polveri sottili di facilitare la trasmissione del virus, nel senso di provare l’ipotesi che siano un vettore virale. Lo affermano anche due medici dell’Ospedale San Raffaele di Milano, il cardiologo Antonio Frontera e il primario del servizio di Pneumologia George Cremona, in uno studio che prende in considerazione due meccanismi congiunti. Il primo tende a spiegare perché le popolazioni più esposte ad inquinamento sono quelle in cui si è registrato il maggior contagio. Si basa sul fatto, già dimostrato in laboratorio sui topi, che l’esposizione cronica al particolato PM2.5 si associa a una maggiore presenza nei polmoni di uno degli ormoni coinvolti nei meccanismi di regolazione della pressione sanguigna, l’enzima denominato ACE-2 indicato come una ‘chiave di accesso’ del nuovo coronavirus nelle nostre cellule. L’ipotesi è che una eccessiva produzione del recettore di accesso renda più facile infettarsi a parità di carica virale e, a seconda della quantità di questo tipo di recettore, possa essere responsabile di forme poco sintomatiche fino alle forme di malattia più grave.
Il secondo meccanismo, sul quale però non ci sono evidenze al momento, potrebbe invece spiegare l’elevata mortalità nelle zone più inquinate ed è legato alla presenza di alti livelli di biossido di azoto, un altro inquinante gassoso presente in atmosfera. Questo perché dall’analisi clinica dei soggetti, un’intossicazione da biossido di azoto è caratterizzata da sintomi simili a quelli delle forme gravi di Covid-19. I medici del San Raffaele ipotizzano che gli effetti di alti tassi di biossido di azoto, anche se non equivalenti a un’intossicazione, possano sommarsi all’azione infiammatoria dovuta al virus, rendendo la manifestazione della malattia più aggressiva. Si tratta solo di un’ipotesi, per ora, che andrà confermata da successivi studi. E la strada da seguire riguarda indagini che richiedono una collaborazione tra discipline scientifiche tradizionalmente distinte, a partire dalla scienza di base fino alle sue varie applicazioni.
Siamo ancora lontani da risposte certe ma è evidente che l’inquinamento da polveri sottili, da biossido di azoto o da alti livelli di ozono, cioè l’insieme di sostanze gassose tipiche di aree altamente industrializzate, ha un impatto sulla salute della popolazione, specialmente rispetto a problemi legati alle infezioni respiratorie. Che il Covid-19 venga ‘trasportato’ o meno da queste polveri sottili, arrivando a diffondersi più ad ampio raggio, o che gli effetti dell’infezione da Covid-19 siano più drammatici su soggetti più vulnerabili a infezioni respiratorie perché vivono in zone inquinate, il risultato purtroppo non cambia. ◘
di Marta Cerù