Economia. Intervista a Angelo Mastrandrea, giornalista e scrittore.
«La logistica è divenuto il settore cruciale dell’economia capitalistica», scrive Angelo Mastrandrea nel suo libro L’ultimo Miglio (Manni editore), il settore più avanzato di questo capitalismo aggressivo e mercatista. Un’analisi lucida e di semplice lettura che si dovrebbe far circolare nelle scuole e nelle sedi di partito per far capire dove sta andando il mondo. Abbiamo intercettato il professor Mastrandrea, scrittore e giornalista, e gli abbiamo posto alcune domande in merito.
Nel Comune di Città di Castello è stata inaugurata una piattaforma logistica, nella Regione ne sono previste altre due e Amazon sta costruendo a Magione vicino a Perugia uno stabilimento di 8.000 mq. Politici e imprenditori fanno a gara per allestire questi nuovi asset industriali. La critica non è ammessa.
«La nascita di un polo logistico quale che sia dal punto di vista del politico o del cittadino è manna perché crea posti di lavoro. Ma se si allarga il punto di osservazione si vede che non è proprio così. I risvolti negativi sono numerosi. Si creano posti di lavoro, però se ne perdono altri. Seguendo la vicenda di Amazon Italia, a Passo Corese sono state assunte più di 2000 persone, ma sono state perse molte piccole attività, produzioni agricole e anche quote di turismo, penalizzato dalla nascita delle moderne zone industriali. Inoltre, queste multinazionali dove e a chi pagano le tasse? È vero che si creano posti di lavoro (molto spesso precari), ma i soldi finiscono nei paradisi fiscali. Terzo aspetto è l’impatto ambientale: quanto si perde di territorio e di paesaggio? Si tratta di un bene immateriale che però in Italia ha una sua rilevanza. Nella Pianura padana il paesaggio, un tempo fatto di grandi distese di tenute agricole, le vecchie cascine, adesso è sempre più sostituito da capannoni similari a questi, che comunque costituiscono uno stravolgimento del paesaggio. Inoltre bisogna pensare all’aumento di traffico che si crea attorno a questi poli logistici con l’aumento di inquinamento acustico e l’aumento di emissioni di Co2 in atmosfera».
Lei afferma che il trasporto di merci è diventato più importante della produzione di merci. Come si spiega questa contraddizione?
«Con il fatto che la produzione sia di interi prodotti sia di componenti è sempre più delocalizzata, per cui è estremamente difficile trovare un prodotto di qualsiasi tipo che sia fatto interamente in Italia o in un solo Paese. Per questo bisogna necessariamente prendere merce altrove, e prevalentemente dai Paesi dell’Est o dall’Estremo Oriente… Così si genera un traffico che se lo si guardasse dalla luna apparirebbe come lo scorrere fluido e incessante all’interno di arterie di un corpo».
Questo cosa significa?
«È un aspetto emblematico perché durante il Covid si è bloccato tutto, ma le due infrastrutture che reggono la globalizzazione hanno continuato a lavorare imperterrite».
Quali?
«Quelle digitali, tanto è vero che sono cresciute: social network, rete, commercio virtuale. Le statistiche hanno registrato in Italia un aumento degli acquisti di merci attraverso la piattaforma del commercio elettronico del 35%. Ma anche il trasporto di merci, infrastruttura materiale, non si è fermato. Si calcola che le multinazionali dell’economia 4.0 abbiano guadagnato come mai prima di ora. La sola Amazon Europa ha dichiarato un fatturato di 44 miliardi di euro, finiti nei paradisi fiscali».
Stiamo assistendo a un cambiamento imprevisto?
«Da una parte si è impedito alle persone di muoversi, però le grandi navi portacontainer hanno continuato a girare, tanto è vero che quando la Ever Given si è incagliata nel canale di Suez, creando l’ingorgo di decine e decine di altre navi per una settimana, in Occidente sono cominciati a scarseggiare sia beni primari alimentari come lo zucchero, ad esempio, sia beni secondari, componenti utili per la trasformazione di altri prodotti».
Le infrastrutture logistiche promettevano di favorire il passaggio del trasporto da gomma a rotaia.
«In Italia il 90% del traffico logistico è su tir quindi su gomma. La merce arriva nei porti italiani che sono mal collegati alle ferrovie. Adesso con i soldi che arriveranno dall’Europa si pensa di migliorare il collegamento ferroviario con le aree portuali per provare a spostare un pezzo di questo traffico su rotaia. Ma il vero problema rimane il traffico e non il mezzo».
Questo spariglia le carte di chi sostiene tutto il trasporto su rotaia.
«Il problema che si pone oggi è o di trasformare questo modello ovvero di portare le ferrovie dove già sono i poli della logistica o ricostruire tutto da un’altra parte, cosa piuttosto utopistica. Questo modello è destinato ancora a durare perché le interconnessioni globali sono così profonde che appare impossibile poterlo sostituire. Qualche cambiamento, se ci sarà, è solo per ragioni geopolitiche, nel senso che se dovesse risultare troppo difficoltoso importare merce da zone strategiche del mondo – pensiamo cosa sta accadendo oggi in Afghanistan –, il sistema economico sarebbe costretto a cambiare, altrimenti non vedo altre possibilità».
Con la nascita dei supermercati, veri santuari del consumo, la grande distribuzione sembrava aver raggiunto la condizione più favorevole. Ora si sta facendo un ulteriore passo avanti?
«Sì, perché con questo modello c’è la possibilità di realizzare lo scambio in maniera più rapida e conveniente. Amazon ha cominciato con la consegna dei libri a domicilio e ora si portano a casa cibi freschi e qualsiasi altra cosa. La logistica c’è sempre stata in generale, ma ormai la mole dei lavori, delle componenti, dei prodotti dovuti alla delocalizzazione è talmente grande che conviene farlo perché costa meno».
Il sistema dunque si è adeguato quasi automaticamente?
«La grande svolta è stata l’invenzione del container. Prima le merci generalmente arrivavano via mare e le navi venivano caricate di pacchi da facchini e altri lavoratori; poi arrivati nel porto di destinazione occorrevano giorni per lo scarico. Oggi le merci vengono impacchettate in questi grandi container e ciò ha reso le operazioni estremamente più snelle e veloci, facendo aumentare vertiginosamente la mole dei materiali che girano. Per cui sono state costruite navi sempre più grandi, il canale di Suez verrà ampliato, e tutto ciò serve ad abbassare il costo della spedizione rendendo conveniente prendere la merce altrove. Questo è il meccanismo che è strettamente legato alla globalizzazione».
Tale modello eliminando gran parte del piccolo commercio cambierà volto anche alle città?
«Lo abbiamo già visto col Covid. Durante il lockdown nelle città giravano i furgoni che facevano le consegne a domicilio e i rider che portavano cibo fresco. Questa è già una trasformazione enorme. Si tratta di un cambio strutturale favorito dai processi tecnologici e destinato a modificare lo stile di vita delle persone. Uno stile di vita ultraindividualista: il cittadino che si protegge sempre più dalle incertezze, dalle insicurezze del mondo circostante chiudendosi a casa sua, ordinando l’indispensabile per vivere, che esce sempre di meno e tutto ciò produce desertificazione (sociale) anziché vita collettiva: i centri storici sono abbandonati, i negozi chiudono e si creano questi satelliti ai margini delle città».
La Sinistra ha sposato questa forma di neocapitalismo rampante senza se e senza ma e senza essere stata capace di sviluppare un pensiero critico in ordine alla nuova configurazione socio-economica e culturale da esso prodotta.
«La Sinistra ha aderito a questo modello in modo più entusiasta di altre forze politiche, una adesione ideologica oserei dire, perché rappresenta il nuovo, il progresso, e soprattutto il lavoro secondo la vecchia cultura laburista. Trovo che ci sia una connessione tra guardare al modello Amazon, quindi alla grande fabbrica del nuovo millennio, la rivoluzione industriale 4.0, esattamente come qualche decennio fa si guardava alla Fiat o alle grandi fabbriche che creavano posti di lavoro. Per risollevare il sud Italia si è industrializzato con le grandi industrie. In ogni caso c’è sempre stato il miraggio dei posti di lavoro e l’idea di trasformare il contadino in operaio. È quindi una questione nuova che fa parte tuttavia di una lunga storia. Non c’è stato nemmeno il tentativo di organizzare la logistica per macroregioni, per razionalizzare un po’. E così i poli logistici spuntano come funghi un po’ dappertutto, negli svincoli autostradali, con l’invidia di Sindaci che se possono ne vorrebbero uno ancora più grande di quello fatto dal suo collega limitrofo».◘
di Antonio Guerrini