Intervista all’ex ambasciatore Enrico Calamai.
Enrico Calamai è stato ambasciatore a Kabul dal 1987 al 1989. È stato anche ambasciatore in Argentina durante il regime oppressivo dei colonnelli. In quel periodo, secondo le testimonianze dei sopravvissuti, riesce a salvare oltre 300 persone. Per questo motivo è stato definito lo “Schindler argentino”. La cosa tuttavia non ha giovato alla sua carriera, perché le autorità italiane successivamente lo hanno spedito in Nepal, poi in Afghanistan e subito dopo in pensione. A proposito dell’arretratezza dei talebani ha recentemente scritto nel Manifesto: «Valga a titolo di esempio quanto segue: usi a camminare scalzi, si vantavano del numero di chiodi che riuscivano a piantarsi nel callo sotto i piedi: quanti più chiodi, più macho. Radicalmente omofobi, consideravano la donna buona soltanto per la riproduzione e i giovanetti preferibili per il piacere. I loro notabili si mostravano spesso in pubblico (difficile che non continuino a farlo) con un ragazzo rapito o comprato alla famiglia, la cui sorte nel diventare adulto era segnata: respinti dalla famiglia, emarginati dalla società erano (probabilmente lo sono ancora) condannati alla prostituzione o a morire d’inedia. Quanto sopra per dire che era materialmente impossibile che nel giro di pochi mesi da tale stato di arretratezza culturale i talebani fossero arrivati a pilotare gli aerei e a guidare i carri armati con cui si espandevano a macchia d’olio, fino a impadronirsi del Paese. Più probabile che fossero i Pasthun dell’Isi (Inter-Services Intelligence) pakistano a provvedere alla bisogna, con accordo Usa e finanziamento saudita».
A seguito di queste dichiarazioni pubbliche dell’ex ambasciatore gli abbiamo posto alcune domande.
Nei tuoi interventi opportunamente parti dalla complessità geopolitica, culturale, etnica e religiosa dell’Afghanistan.
«L’Afghanistan è un incrocio complicatissimo di etnie, di clan, di fedeltà a componenti più o meno fondamentaliste. Una realtà dalla cui complessità non si può prescindere. Un Paese largamente ancora arretrato, caratterizzato da una vita ancora legata ad attività agro-silvo-pastorali che coinvolge gran parte della sua popolazione. E anche segnato da una grande povertà. La lotta tra il tentativo di introdurre qualche elemento di modernizzazione e la difesa strenua della tradizione ha accompagnato tutta la Storia del ventesimo secolo del Paese. Dal riconoscimento dell’indipendenza subito dopo la Prima Guerra mondiale fino al ritiro degli americani e della Nato di oggi».
Come si sono manifestati nei decenni i diversi tentativi di modernizzazione?
«Qualsiasi guerra od operazione bellica non si fa mai per le nobili finalità che normalmente vengono proclamate. Anche l’Urss si proponeva di introdurre elementi di modernizzazione. In effetti quando in quel tempo ero in Afghanistan era normale vedere donne vestite all’Occidentale. Negli uffici, nei negozi o nei ministeri le donne lavoravano normalmente. Era certamente uno Stato di polizia, durissimo, di stampo sovietico, ma aveva tra gli obiettivi anche una finalità di modernizzazione. E questo è stato anche quello che ha prestato il fianco e determinato la resistenza dei mujaheddin come difensori e rappresentanti della tradizione. È quello che è successo in termini altrettanto drammatici in contesti come la Cecenia, l’Algeria o l’Iran. Una resistenza fondamentalista islamista contro qualsiasi espressione di una cultura altra, e di quella occidentale in particolare».
Negli anni '70 e '80 i tanti che nella rotta per l’India si fermavano in Afghanistan parlavano di un Paese bellissimo e di una popolazione pacifica e accogliente.
«Certo, la rotta era Turchia, Iran, Afghanistan e India. Devo ammettere che nei due anni che ho passato a Kabul ho conosciuto pochi afgani. Vivevo imprigionato in ambasciata. Qualsiasi afgano che avesse parlato con me avrebbe dovuto poi riferirlo anche alla polizia. E se andavi a riferire qualcosa alla polizia non sapevi se saresti uscito vivo».
Le invasioni che si sono succedute, da quella inglese a quella sovietica, fino a quella statunitense e Nato, hanno alterato quello che avrebbe potuto essere uno sviluppo diverso della società e delle istituzioni afgane.
«Sì, di fatto sono queste che hanno determinato lo scontro tra modernizzazione e tradizionalismo che ha attraversato la Storia e ancora attraversa l’Afghanistan. Negli anni '20 il primo re dell’Afghanistan indipendente, Amanullah Khan, fece il gesto clamoroso di togliere in pubblico il velo alla moglie. Era come dire che le donne potevano circolare liberamente come gli uomini, che avevano gli stessi diritti e potevano vestirsi come volevano. Gli andò molto male per quel gesto. Nel 1929, mentre era in Italia per cure termali, Kabul fu invasa da una marmaglia tradizionalista, del tipo di quella “trumpiana” che invase il Campidoglio negli Stati Uniti, che impose come nuovo reggente un giovanissimo tagiko chiamato “il portatore d’acqua”, che fu a sua volta cacciato dopo qualche mese da Nabil Shah, cugino del re e capo dell’esercito. Conflitti e colpi di Stato hanno caratterizzato la Storia del Paese, con un confronto permanente tra una componente aperturista/progressista, influenzata sia dall’Occidente che dai sovietici, e una componente tradizionalista, feroce, che rifiuta qualsiasi elemento di modernizzazione della cultura e della struttura dell’Afghanistan. Queste le dinamiche che hanno caratterizzato tutto il ventesimo secolo e che sono riproposte anche oggi».
Le invasioni hanno rafforzato in ultima analisi le componenti più retrive e violente dell’islamismo, a partire da quella wahabita esportata dall’Arabia Saudita?
«È utile segnalare, a mio avviso, che la domanda di modernizzazione, di diritti e libertà è una esigenza sentita da molti. Una modernizzazione ritenuta sacrilega dai tradizionalisti, ma auspicata e richiesta da molti altri. Dalle donne soprattutto. L’Arabia Saudita è un regime teocratico, la contraddizione è tutta nostra. L’accettiamo tranquillamente come alleato e partner commerciale. L’accettazione da parte dell’Occidente non riguarda quanto siano retrive la cultura e le azioni di questi regimi, ma l’eventuale ribellione nei confronti dei nostri interessi. Non sarei sorpreso se nel prossimo futuro ci dicessero che i talebani non sono più talebani. E che gli Stati Uniti accettino la formazione di un Emirato in Afghanistan, quello che i talebani hanno dichiarato di voler costruire, che non vuole esportare il terrorismo ma conquistare tutto il potere e fare soldi. Tutto va bene, purché non siano di ostacolo ai nostri interessi. Ma a questo punto la partita si complica, è il controllo di tutto il Medio Oriente a essere in gioco. Ed entrano in scena molti altri attori: la Cina, la Russia, l’Iran, l’India, il Pakistan. Gli Stati Uniti e la Nato hanno dato una zampata pensando di piegare tutto e tutti, con i nostri bei principi, con tutte le nostre dicerie sui diritti umani. E alla fine con un calcio ci hanno cacciati».
Come ha potuto la potenza più forte del mondo, considerata la storia di questo Paese e la cacciata di inglesi e sovietici, pianificare una sconfitta tanto devastante?
«Hanno pensato possibile ancora una volta imporre la loro ideologia con la guerra. E hanno sbattuto la testa contro un macigno».
Che ruolo gioca il Pakistan in questa vicenda?
«L’arrivo dei talebani in quei tempi e in quei modi non è l’arrivo di un centinaio di montanari. C’è qualcosa d’altro, come quando hanno spazzato via in poco tempo i signori della guerra e i mujaheddin dopo il ritiro dei sovietici. In Afghanistan c’è sempre stata una presenza diffusa e impegnata del Pakistan, il vero soggetto che ha gestito in forma diretta questa ultima fase della guerra».
E l’Unione europea?
«Appena i talebani dimostreranno di poter gestire l’intero Paese, tratterà. All’UE non importa se tagliano le teste o rinchiudono le donne in casa. Non è vero che condizioneranno gli aiuti al rispetto dei diritti umani. Queste sono le balle che raccontano al mondo, altrimenti non farebbero morire le persone nel Mediterraneo». ◘
di Luciano Neri