Personaggi. Mario Capanna ricorda Gino Strada, amico e compagno di lotta.
Traspare la commozione nelle parole di Mario Capanna quando parla di Gino Strada.
«Caro amico e compagno di tante lotte straordinarie. A partire dalle prime assemblee studentesche a Milano, lui alla facoltà di medicina e io all’Università Statale. E anche dopo, a condividere le nostre utopie operanti. E nelle poche occasioni che avevamo di vederci, si rinnovavano l’amicizia e la stima reciproca. Ci siamo sempre voluti bene e fidati, come fratelli. Era chiarissima in entrambi la condivisione totale di valori e battaglie che rendono la vita di una persona degna di essere vissuta».
Ricorda il Gino Strada negli anni del Movimento Studentesco?
«Certo. Era uno dei più attivi, acuti, ironici e spiritosi compagni di lotta. Allora, come negli anni successivi, diceva sempre “non reggo l’idea dell’ingiustizia”. Nel 1970 scrivemmo un opuscolo, La medicina al servizio delle masse popolari, che era in buona parte il prodotto delle sue analisi e del suo pensiero. Lui è rimasto sempre coerente con quelle idee che scrivemmo allora, le ha naturalmente arricchite, elaborate, e soprattutto applicate, diventando l’uomo di pace, il lottatore autentico a fianco degli ultimi che si è speso tutta la vita affinché l’umanità fosse migliore. In un tempo di consumismo materiale e cerebrale come questo, nel quale si afferma che il potere è tutto e le persone sono niente, il pensiero eretico e l’azione di Gino che invece afferma che le persone sono tutto e il potere è niente, che cura tutti indifferentemente dalla collocazione, che lotta contro tutte le guerre, costituiscono un valore straordinario. Per la coerenza che manifesta e per la speranza che suscita. Ed era così anche trent’anni fa. Gino è stato uno dei prodotti migliori del Sessantotto».
Come divenne chirurgo di guerra?
«Gino era già allora una persona rara e positiva anche negli studi e nella professione. Era allievo del professor Carlo Staudacher. All’inizio si era formato in chirurgia cardiopolmonare, per poi orientarsi verso la medicina traumatologica e la cura delle vittime di guerra. Ha operato e si è formato nei migliori centri del mondo, da Stanford e Pittsburgh negli Stati Uniti, al Groote Schuur di Città del Capo, l’ospedale nel quale Barnard aveva fatto il primo trapianto di cuore. Gino era uno specialista di rara competenza e prestigio, avrebbe potuto aprire una clinica privata e guadagnare miliardi. E invece ha deciso di salvare vite gratis. Per lui la malattia era una zona “no profit”, una zona protetta, sacra. “È una pazzia – diceva – parlare di sanità privata sostenuta dallo Stato”».
E un episodio degli anni più recenti?
«Tra i tanti episodi ricordo un pomeriggio d’inverno in Piazza Duomo a Milano a vendere insieme copie del mio libro Il fiume della prepotenza, il cui ricavato era destinato a contribuire alla costruzione dell’ospedale di Emergency in Cambogia. Gino mi regalò l’involucro di una minuscola e assassina mina antiuomo e mi disse : “Non dobbiamo mai dimenticare la disumanità delle armi, la guerra deve diventare un tabù”. Gino era, è, un testimone scomodo per tutti, non edulcorava le tragedie, indicava con onestà intellettuale e coraggio i responsabili delle guerre, era l’utopia concreta che rompeva l’omertà dei mondi politici paramafiosi e bellicisti, dei capi di Stato e di partito, dei parlamentari e degli uomini di governo che mentre parlano di pace aumentano le spese militari, vendono armi anche alle dittature più sanguinarie e portano in guerra il proprio Paese per tutelare i profitti di pochi speculatori e delle transnazionali, che oggi rappresentano il nemico principale dei popoli e delle democrazie. Questo ha fatto anche l’Italia. E la tragedia dell’Afghanistan è lì a raccontarci tutto questo, a dirci quanto Gino fosse nel giusto e lucidamente profetico nel mettere in guardia, nel rappresentare le tragedie e le dinamiche di un Paese che ha conosciuto a fondo e per le cui popolazioni si è speso così tanto».
Ma Gino Strada non era solo il militante contro la guerra, il teorico della centralità della persona e della salute come diritto di tutti. Era anche un medico e un professionista estremamente rigoroso. Le strutture che costruiva in posti impossibili attraversati da guerre, erano tecnicamente di alta qualità, persino belle esteticamente pur nelle condizioni più estreme.
«Sì, Gino era molto rigoroso, perché molto competente. Di grande umanità, ma anche di straordinaria professionalità. “Un professionista degli aiuti chirurgici d’urgenza nelle zone di guerra”, come si definiva. Per lui occuparsi di chirurgia di guerra e di riabilitazione doveva essere opera di professionisti. Per questo più di una volta aveva messo in evidenza il fatto che molto spesso gli aiuti umanitari non fossero qualificati. Una volta, eravamo nella sede di Emergency a Milano, mi spiegò come era possibile fare una chirurgia di qualità anche con mezzi essenziali. Ricordo ancora le sue parole : “Nei nostri ospedali – mi disse – spesso non abbiamo monitor, defibrillatori, ventilatori, apparecchi per elettrocardiogrammi, eppure lavoriamo su grandi traumatizzati e la mortalità è meno del tre per cento. E considera che per curare un nostro paziente bastano alcune decine di dollari; a Milano un posto letto costa mille euro al giorno”».
Come è stato possibile che un uomo come lui, in condizioni di salute peraltro non ottimali, abbia potuto realizzare così tanto in ogni parte del mondo e nelle situazioni più difficili?
«Era motivato da valori profondi, da grande convinzione e determinazione, portate avanti con apertura mentale rispetto ai contesti dove operava e sempre accompagnate da una straordinaria capacità organizzativa e di coinvolgimento. Mi diceva di stare bene in quelle situazioni perché incontrava l’umanità più incredibile. E quando anch’io gli chiesi del suo cuore, se anche dopo il by-pass fosse all’altezza della situazione, mi rispose con la sua solita ironia: “Abbiamo deciso consensualmente, io e lui, che ciascuno si fa i cavoli suoi. Io non rompo a lui né lui a me”».
Un momento intenso del vostro rapporto che ricorda?
In quella stessa occasione, mentre stavamo parlando del significato della parola “speranza”, che per lui significava trasformare nel quotidiano l’utopia in progetto, entrò nella sede di Emergency Sergio Bonelli, anche lui medico e con noi nel Movimento Studentesco. Ci abbracciammo tutti e tre ridendo, e non ricordo chi di noi buttò lì “adesso il cerchio è chiuso”. E Gino : “Chiuso? Mai: aperto sul futuro”». ◘
a cura della redazione Altrapagina.it