Venerdì, 19 Aprile 2024

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Pene d’amore

Cultura. Francesca Turini Bufalini e Catullo.

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Il dolore non ha sesso, colpisce ogni creatura. Si può tentare un accostamento antropologico fra il dolore vedovile di Francesca Turini e l’afflizione di Catullo per l’abbandono di Lesbia.

In una clima di anticipo al Barocco, nelle Rime Spirituali sopra i sacri misteri del Santissimo Rosario (1595), Francesca Turini Bufalini, in un mondo pieno d’ira, tesse la storia tutta interiore di una disperata giovane vedova in cerca di morte; per converso arriva a cogliere il punto di svolta nell’atteggiamento favorevole verso la vita, argomento che sarà poi il programma di tutta la sua attività poetica.

L’incipit delle Rime Spirituali così suona: «Del mondo in ira, ormai tra spine e rose, | tra sospiri e piaceri, andrò cantando | del mio Gesù le rare, altere cose | mentre visse fra noi peregrinando; |d’ogni altra cura e di me stessa in bando | in contemplazïoni affettüose | di lui, la breve vita andrò varcando, | fin ch’a nido miglior m’erga e ripose (n° I, vv. 1-8) ||Oh che dolce cantar, che dolce pianto, | che mi sgombra dal petto ogn’altro affanno, | e spoglia ‘l cor d’ogni squallor vetusto! (n° I, vv. 13-14).

Prima di raggiungere la forte determinazione di porre “se stessa in bando per spogliarsi d’ogni squallor vetusto”, Francesca si era trovata «per istrani ‘ntricati laberinti» (Ivi, In morte del consorte, son. n° 163 1 4), lì impigliata fra vecchie tristezze e aveva desiderato languire affinché l’anima imparasse il morire («e, languendo, il morir l’anima impara» Rime 1628, son. n° 165 8). A fatica recuperò il vigore di non abbattersi e il coraggio di non insanire; precisamente nel son. n° 168 (12 - 14) delle Rime Spirituali dove dirottò altrove quel desiderio di morte: «deh, perché il cielo a te medesma involi? | Perché non porti ‘l tormentare in pace | e, languendo, a gioir ché non impari?». Con tecnica retorica il v. 12 interroga per confermare uno stato di fatto: “rubi a te stessa il cielo” (ti privi del conforto religioso), perciò la domanda sostiene la realtà di una differenza, di una mancanza ineludibile. Le interrogative corrono parallele ai quesiti catulliani: «Quare cur te iam amplius excrucies?», la sottrazione del bene perduto, Lesbia, gli fa gridare: “Perché non te ne liberi? perché affondi il dito nella piaga?”; e il verso segue: «Quin tu animo offirmas atque istinct teque reducis, | et dis invitis desinis esse miser? (“Dunque perché, ormai, ancora tu insisti a metterti in croce? | E perché in cuore non ti rinsaldi, e ti liberi, e smetti d’essere infelice, | contro il volere divino?”)», e termina chiedendo agli dei di essere affrancato da quel mostruoso morbo amoroso (G. V. Catullo, Le poesie, a c. di A. Fo, Torino).

Passati i secoli e i costumi e le situazioni, i versi 13 e 14 turiniani del s. n° 168 interrogano, con altrettanta negazione, per avvalorare in antitesi che è possibile reggere il tormento, se non proprio con gioia, almeno col sorriso mesto sulle labbra. Ormai un percorso decisivo è compiuto, si passa da: «e, languendo, il morir l’anima impara» a «e, languendo, a gioir ché non impari?». Catullo non potrà imparare, rimarrà nel vuoto. Gli spasimi dell’innamoramento del poeta latino si collocano in un periodo storico diverso e in uno stato d’animo affettivo differente, ovvio. Egli patisce una passione amorosa, crocifissa nell’animo, da cui non si libererà mai, nonostante si appelli agli dei; la vedova Turina vive una tensione religiosa di ricerca con il cuore spezzato, eppure lo strappo intimo dal bene perduto produce effetti verbali simili per entrambi i poeti.

Nel contesto storico mutato dai tempi latini, Francesca ha facoltà di calcare i percorsi di Petrarca e di Vittoria Colonna, le cui pressanti richieste a Maria e a Cristo, reiterate a lungo con lamenti, convergono in risvolti non totalmente disperati. La decisione intima di volgersi dunque al cielo si fa chiara: la vedova impara a convertire il dolore in una potenza attiva, riponendo il proprio io in disparte per occuparsi dei figli, per aprirsi alla comunità, ed ecco allora lasciare ogni miseria spirituale antica per cantare e piangere dolcemente (n° I, vv. 13-14) dedicandosi anche a scrivere le Rime Spirituali sopra i sacri misteri del Santissimo Rosario (1595). ◘

di Paolo Bà


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