Intervista a Raffaele Pinto, docente di filologia italiana presso la Universitat de Barcelona.
Con Vito Mancuso, teologo acuto e scrittore brillante, parliamo di Dante.
Può indicare il rapporto che esiste tra la Commedia e la teologia contemporanea?
«Non sono un grande esperto di teologia contemporanea, ma da quello che posso osservare non penso che ci sia un grande rapporto con Dante. Parlo di teologia contemporanea riferendomi a quella dei nostri giorni e vedo una grande disparità, non mi pare che ci siano oggi teologi che si sono confrontati con l’intensità di quelli del passato. Un domenicano delsecolo scorso affermava che la Divina Commedia è un’opera teologica, per i fini, per la materia e tutta la poesia. Non concordo su tale affermazione, né con quella di Gentile: “In Dante la filosofia non è il particolare e l’accessorio, ma il generale e insieme il principale”. Ritengo che se Dante avesse voluto fare il teologo o il filosofo, avrebbe concluso il Convivio. Ha voluto fare il poeta, non per una concessione alla forma, ma perché capiva che la poesia a quel tempo era lo strumento che gli permetteva di cantare l’intero: la vita, il mondo, le passioni e lo ha fatto in modo così intenso da far passare in secondo piano l’aspetto poetico rispetto alla passione teologica. La teologia contemporanea dovrebbe recuperare questa capacità di parlare dell’intero».
Quali sono le grandi domande che accompagnano la storia dell’umanità con le quali Dante si è confrontato?
«La Commedia è un’opera immortale, un grande classico, è chiaro che intercetta la contemporaneità. Una delle grandi domande che accompagnano la storia dell’umanità è il male, la sofferenza, il dolore. Concentriamoci però sulla parte positiva, le tre grandi questioni che emergono dalla Commedia: la bellezza, l’eternità e la libertà. Se non si comincia dalla Bellezza, non si parla della Commedia, della sua forma. La bellezza delle parole suscita sensazioni, immagini. Noi umani siamo domanda di bellezza, di forma, di armonia. Il fascino della Commedia è anche in questa capacità di dire le cose più profonde in una forma poetica strutturata. Dante era capace di farlo perché aveva dalla sua parte la scienza del tempo. Il desiderio di bellezza si inscriveva in questa cosmologia, per noi oggi è più difficile».
Mancuso sottolinea un altro aspetto dell’opera di Dante. «È l’eternità, la profondità fisica prima ancora che morale dell’esistenza. È la celebrazione di una prospettiva che non si lascia schiacciare dal tempo. Noi siamo dominati dal tempo. La Commedia è la celebrazione della prospettiva, utopica, ideologica che non si fa schiacciare dal tempo e anzi lo giudica, fa emergere la verità. Rappresenta una grande catarsi del tempo. La verità della teologia si gioca sulla sua capacità di essere escatologica. Infine la libertà; è la grande sorpresa dell’evoluzione naturale: che dal regno della necessità scaturisca un essere umano in parte non determinato, questa è la grande notizia a livello filosofico. La libertà è il centro della Commedia, che è comunque un dramma, ma non una tragedia, come quella di Edipo che uccide il padre. Lì non c’è libertà, il protagonista è schiacciato dalla necessità. Nella Commedia c’è libertà, ci sono un inferno, un purgatorio e un paradiso. Se ci mettiamo a contare tutte le terzine, il centro matematico della commedia è Purgatorio 16.72, il soggetto è il libero arbitrio dove Marco Lombardo spiega a Dante che non tutto è determinato dalla necessità divina». Da acuto teologo Mancuso ha letto per intero la commedia ed esprime la sua terzina preferita: «Sono le ultime parole che Dante fa dire a Virgilio, nel Purgatorio: “non aspettar mio dir più né mio cenno; libero dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: perch’io te sovra te corono e mitrio”. Considerando che queste parole sono state scritte nella prima metà del Trecento ci sento la stessa passione che ritrovo in Pico della Mirandola o in Kant, nell’esortazione a servirsi della propria intelligenza. Infatti Dante è un uomo libero, lo si vede nelle decisioni che prende. Si permette di collocare 5 papi all’Inferno, due eretici in paradiso. Lui proclama la libertà e la pratica, coraggiosamente».
Dante conosce molto bene la teologia del suo tempo, anche quella islamica. A distanza di sette secoli tutto è cambiato, è ancora possibile recuperare la spinta dell’impresa dantesca?
«Bisogna vedere cosa si intende per spinta. Io intendo la grande commedia umana alla luce di Dio, oggi i grandi lo fanno. Penso al pensiero di Panikkar, di Hans Küng, Teilhard de Chardin e altri. Avevano intuizioni che possono dirsi degne della visione dantesca. Carlo Molari ha un pensiero grande, capace di interpretare il sentimento contemporaneo, di dialogare con la scienza. Perché ci sia teologia ci dev’essere il logos, l’esercizio della ragione. A mio parere è possibile recuperare questa spinta. Sulla questione islamica e sull’approccio nella Divina Commedia il mio pensiero differisce da quello di altri analisti, ma bisogna considerare Dante per quello che era e non per quello che vorremmo che fosse stato. Colloca Maometto nell’ottava bolgia, condannato ad una pena terribile e in altri punti della Commedia pone segni e simboli islamici sotto giudizio, perciò il suo atteggiamento verso l’islam non era positivo come da alcuni è stato interpretato. Averroè era trattato con rispetto non in quanto islamico, ma in quanto grande filosofo».
Quali parole può dire la teologia contemporanea sulla presenza del dolore e del male?
«Ritengo che questa sia la sua più grande aporia, dal punto di vista spirituale. In lui troviamo l’inferno eterno. Non è il fatto che esista, è il fatto che sia eterno. In questo vedo la morte del Vangelo, della misericordia. Credo nella vita, consapevole della sua imperfezione, che tante persone siano realmente colpevoli e meritevoli dell’inferno, tuttavia che la loro colpa le inchiodi eternamente al male questo è l’anti Vangelo. Dante nella teologia e dottrina del tempo non fa che riprendere alcuni passi del Nuovo Testamento perché mentre in alcuni passi si parla di Dio tutto in tutti, della morte che sarà vinta e si giunge a un senso di gloria e celebrazione, in altri passi si parla di supplizio eterno. Nella conclusione della parabola del giudizio universale, (Matteo 25) “se ne andranno questi al supplizio eterno. Quindi Dante non fa altro che riprendere ciò che era conosciuto nel suo tempo».
Il senso di vendetta, che inchioda il peccatore al male che ha fatto, per Mancuso è una caratteristica molto umana e ben poco divina.
«La classificazione dei peccati, con la gerarchia dei nove cerchi è apprezzabile e Dante si rifà a Evagrio Pontico e poi a Gregorio Magno che furono i primi a catalogare i sette vizi capitali, ma la sensibilità contemporanea oggi ha un atteggiamento diverso su alcuni punti. Francesca da Rimini, ad esempio, ha certamente commesso adulterio, ma difficilmente oggi sarebbe giudicata nello stesso modo;la sua sarebbe classificata come una grande storia d’amore. Penso anche all’implacabilità verso i suicidi. Se c’è una categoria di persone che ha bisogno dell’abbraccio divino sono proprio loro.
Ci sono anche premi non accettabili dalla coscienza contemporanea: ad esempio Costantino non verrebbe collocato in Paradiso, ha fatto bene alla Storia del cristianesimo, ma ha ucciso uno dei suoi figli per il potere».
La luce ha un ruolo centrale nel paradiso, è un invito alla contemplazione? E come spieghi l’assenza di Gesù nella Commedia?
«A parte la collocazione di alcuni personaggi, che era in linea con la concezione di quel tempo, il purgatorio e il Paradiso sono più in armonia con la nostra visione contemporanea. È bella questa purificazione della libertà che è il purgatorio. Anche nel Paradiso, la maniera in cui Dante parla dell’esperienza dell’eterno è insuperata e insuperabile. Riesce a compiere quell’operazione a cui accennava Panikkar parlando del mistero: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Qui comincia il lavoro del teologo.
Certamente la luce ha un ruolo fondamentale e io aggiungo anche la musica, Dante descrive il Paradiso come “musico”. È una delle esperienze più vicine all’eterno che noi qui e ora possiamo avere. La grande musica che ti rapisce e sembra condurti in un’altra dimensione, come la luce, come la bellezza. E l’eternità non sembra una chimera, ma l’ultima dimensione del nostro viaggiare. La poesia, la musica, il ritmo, la rima di Dante sono decisive, a maggior ragione nel Paradiso».
L’assenza di Gesù?
«Non saprei spiegarla. Penso a Boezio, la consolazione della filosofia. Non c’è Cristo, ma al contempo sono pagine piene di Dio. Forse Dante si rifà alla concezione che Dio è tutto in tutti e non lo associa al Figlio, lo supera. Il cristocentrismo ci viene dal protestantesimo ed è poi entrato nella teologia cattolica. Forse questa mancanza di centralità di Cristo è semplicemente aderente alla concezione del tempo e del resto anche il Cristo cosmico di Panikkar non è personalistico»◘
a cura della Redazione