Intervista a Juan Varela-Portas de Orduña dell’Università Complutense di Madrid.
Tra il 1200 e il 1300 Firenze grazie al nuovo fervore dei mercati e delle banche diventa la più grande potenza economica e finanziaria d’Europa.
Come giudica Dante la nuova economia nascente nella sua città?
«Dante si rende conto delle profonde conseguenze politiche della nuova economia protocapitalista. Egli comprende che con essa si entra in uno stato di conflitto permanente fra individui, casati, città, regni, che solo un potere globale super partes non condizionato economicamente potrebbe controllare.
La nuova economia, per lui, mette in crisi i fondamenti essenziali della vita in comunità (la materia, in senso tecnico): innanzi tutto, il senso dell’utilitas dei beni materiali, che salvaguarda la salus della polis e, con esso, tutta l’ideologia del dono e della giustizia distributiva che, almeno in forma teorica, era parte fondamentale del mondo feudale. In questo modo, la nuova economia mette anche a rischio la forma sostanziale (in senso tecnico) di qualsiasi comunità politica: l’amore verso il prossimo, senza il quale gli esseri umani non possono vivere assieme ad altri esseri umani».
La nuova ricchezza portò profondi cambiamenti nello stile di vita. Sorsero molte attività, si costituì una nuova classe sociale di borghesi ricchi e l’arricchimento favorì l’esplosione del lusso. Dante visse in questo ambiente: cosa lo pose in contrasto con esso?
«Dante vede e prova nella sua esperienza personale quale tipo di psicologia sociale favorisce la nuova economia. Per concettualizzare questa nuova situazione storica Dante usa la nozione cupidigia (lat. cupiditas). La cupidigia dantesca va ben al di là di una semplice brama smisurata di beni materiali (ricchezze, denaro) e beni terreni (potere, sapere mondano), poiché implica una radicale perversione e un profondo degrado del desiderio o appetito naturale dell’essere umano. Dante è consapevole non soltanto della natura desiderante istintiva dell’essere umano e di tutto l’universo, concepito come un “artefatto” provvidenziale teleologico, ma anche del fatto che il desiderio umano verso beni concreti ha una natura specificamente feticista, e cioè che l’essere umano desidera i beni materiali come feticci sostitutivi della vera felicità e perfezione ovvero di Dio».
In cosa questa percezione si avvicina a quella contemporanea?
«La nuova economia agisce appunto sulla natura desiderante umana e presenta alla coscienza un altro tipo di feticcio intrinsecamente perverso: il feticcio mercantile, che non rimanda alla felicità come oggetto utile (valore di uso), ma a un valore mercantile (valore di scambio), che è solo un numero che può aumentare senza fine riproducendosi mediante meccanismi che lo fanno padrone assoluto degli esseri umani (quello che oggi chiamiamo capitale). In questo modo, il desiderio o appetito naturale – che, secondo natura, dev’essere naturalmente saziabile – diventa una continua brama insaziabile e angosciosa che porta l’individuo a un costante stato di insoddisfazione e irritabilità, che, a sua volta, produce tutti i conflitti politici e sociali che costituiscono la vita storica della Firenze e dell’Italia vissute da Dante».
L’avidità, simboleggiata nella Commedia dalla lupa, rappresenta per Dante il desiderio smodato di accumulo. Questa critica esprime solo una dimensione personale o denuncia un male strutturale dell’economia?
«Certamente denuncia un male strutturale profondissimo perché è un male ontologico. Con Dante non siamo più di fronte a una denuncia morale verso comportamenti sviati dalla norma sociale, come nelle vecchie satire medievali contro l’usura o contro i signori avari, ad esempio, ma di fronte alla denuncia di una condizione sociale generale che, innestandosi in un fallo strutturale della natura umana, la natura feticista del suo desiderio (prodotta, detto sia per inciso, dal peccato originale), minaccia, come abbiamo spiegato, le basi stesse della vita umana che è, necessariamente, una vita etica e politica.
Dal momento in cui l’essere umano non “vive” le cose in virtù del loro valore di uso, cioè come “nature” insite in un ordine bello e provvidenziale (cosmo), come tracce delle forme esemplari divine, ma le “vive”, “in quanto sono ordinate alla possessione dell’uomo” (Cv. IV xi 5), come ricchezze e quindi insite nel “mercato de’ non saggi” (Poscia ch’Amor 35) in funzione del loro valore mercantile, e ridotte quindi a capitale; da questo momento, l’individuo e la collettività perdono il senso teleologico del proprio desiderio e immediatamente il senso dell’universo e della propria comunità politica. Nel momento in cui le “cose” diventano ricchezze, automaticamente anche le persone hanno un “valore” per la comunità che non dipende tanto o solo dalle loro qualità intrinseche, ma piuttosto dal loro valore mercantile, cioè dalla loro apparenza sensibile esterna e dalla loro fama. È quello che oggi chiamiamo capitale sociale nelle sue diverse varianti – capitale politico, culturale, sessuale, ecc. –, cosa che Dante dichiara nel Convivio di aver patito nel suo esilio.
La nuova economia suppone un male ontologico in quanto fa perdere il senso teleologico dell’universo, la qualità di artefatto bello creato da Dio. Perciò il capitalismo per Dante è costitutivamente brutto, in quanto la bellezza dev’essere sempre collegata all’utilità e dipende cioè dalla funzione e dalla forma dell’oggetto. E, se non c’è più bellezza nell’universo, non può neanche esserci amore...».
La critica dantesca alla civiltà borghese, alle prime banche, a una prima finanza e a un protocapitalismo già aggressivo è portatrice di un’altra prospettiva che giudica la nostra modernità. Quali ne sono le caratteristiche?
«Certamente, lo sviluppo storico ha dimostrato che l’analisi di Dante era giustissima e chiaroveggente, e che infatti il desiderio umano sub specie capitalismi è potenzialmente insaziabile, e che quindi il capitalismo era necessariamente destinato a urtare contro limiti planetari o universali. L’unico dubbio è se l’annientamento del cosmo prodotto dal capitalismo annienterà anche la civiltà o addirittura la specie umana. La grande critica e il grande dubbio che Dante ci pone è un problema molto presente nei dibattiti in ambito ecologista: antropocene o capitalocene? La crisi climatica e medioambientale prodotta dall’essere umano consegue dalla sua natura fallita come specie o da un modo di produzione storicamente sviluppato e che, come tale, può essere superato? L’idea che il capitalismo è l’organizzazione sociale più conforme alla natura umana è centrale nel neoliberismo, ma Dante, che vede apparire storicamente il capitalismo come la tripla bestia che lo minaccia sul colle, ci indica che non è così. È invece una perversione della vera natura umana, la quale conserva un senso della finalità del mondo, della verità e del bene, della bellezza, che gli permette di prospettare al di là dei benefici immediati, dei beni concreti individuali e a portata di mano. È un pensare globalmente, cosmico, per poter controllare la sua cupidigia cioè il suo desiderio malsano e recuperare così la salute, e, con essa, la “diritta via” (la rettitudine; l’intimo senso della giustizia) e la libertà personale e collettiva».
Che cosa dovrebbe essere ripreso della critica di Dante alla economia del suo tempo per condurre una radicale revisione del modello economico contemporaneo?
«La conclusione principale dell’analisi dantesca delle ricchezze, secondo me, è l’imprescindibile ritorno alla natura. Dobbiamo quindi essere di nuovo capaci di considerare le cose in quanto cose, e non in quanto merci, di valutarle in funzione del loro valore di uso e non di scambio, di ritrovare insomma un nuovo rapporto con le cose naturali e artificiali, con la natura e la tecnica (l’arte), e quindi con noi stessi.
Per combattere il problema ontologico che crea il capitalismo e la cupidigia da esso risultante, Dante propone come arma una poesia filosofica e sapienziale che implica, in realtà, un completo programma didattico e gnoseologico che porta alla vera conoscenza. Per Dante è indiscutibile il vincolo fra psiche, etica e politica, e perciò è fermamente convinto che il cambiamento e il miglioramento delle condizioni sociopolitiche sia inscindibile dal cambiamento e miglioramento delle condizioni psico-etiche individuali e viceversa. Solo l’istruzione e il lavoro intellettuale in grado di coinvolgere tutte le capacità umane, che egli identifica con la poesia, può salvare l’essere umano dal destino tragico a cui lo porta il nascente capitalismo, aiutato, e allo stesso tempo fondando, un sistema politico utopico, cioè universale, che permetta lo sviluppo di tutta l’intelligenza collettiva potenziale nella nostra natura». ◘
a cura della Redazione