Ambiente. Transizione ecologica tra promesse e mercato.
Le dinamiche politiche, economiche e climatiche globali ci impongono ormai da tempo una seria riflessione sul tema dell’energia. Troppo spesso rincorriamo ora una ora l’altra “falsa soluzione”, ognuna data puntualmente per risolutiva. Di nuovo il nucleare, a sentire il Ministro Cingolani proprio poche settimane fa, prima ancora l’idrogeno sulla spinta della valanga di soldi in arrivo col Pnrr, oppure il continuo richiamo alle rinnovabili che, a furia di nominarle, corrono il rischio di fare la fine del concetto di sostenibilità: vuol dire talmente tante cose che non vuol dire più nulla. Il rischio di una de-significazione cela sempre altre intenzioni.
Come appunto il gran parlare di “transizione” sottace dimensioni che nella loro strutturalità dovrebbero avere una posizione centrale nella discussione. Mi riferisco alle forme, ai modi, agli spazi, alla logica in cui l’energia andrebbe declinata. Oggi l’energia è centralizzata, geograficamente, economicamente e dal punto di vista delle fonti. È prodotta da enormi centrali, alimentate da fonti fossili, in mano a pochi soggetti economici, con enormi impatti sociali e ambientali sia nei Paesi di estrazione sia in quelli di produzione. Il contributo importante delle fonti rinnovabili è stato sostanzialmente lasciato al mercato, senza una vera e propria pianificazione. Non basta cioè dire quanta energia da fonte rinnovabile vada prodotta e quale quota abbia la singola Regione per avere come risultanza un piano ben articolato, programmato, discusso, partecipato. Basti ricordare le battaglie nella nostra Regione tra il 2011 e il 2014 contro la disseminazione improvvisata e spesso speculativa di impianti a biogas o biomasse. Inoltre ancora oggi la soluzione produzione/consumo non esiste, se non sulla carta, e con qualche piccola co-unità energetica. Ogni punto di produzione di energia, dal pannello sul tetto alla centrale Enel di Brindisi, si immette nella rete elettrica nazionale, ma essa non viene effettivamente consumata là dove si produce.
Ancor prima quindi di discutere quali combustibili, quanti pannelli, quanto eolico, quante batterie, dobbiamo decidere se l’energia può diventare un fatto democratico e partecipato, decentralizzato, territorializzato, che abbia impatti minimi; in sostanza se la futura sarà una “Giusta Transizione” oppure l’ennesimo processo di valorizzazione economico-finanziaria completamente in mano a quelli che, i danni, li hanno davvero fatti. Senza questo passaggio non solo non vi sarà alcuna transizione, ma ciò che verrà sarà la messa in mora della vivibilità di interi territori in tutto il globo. Due esempi per capirci: il tema dell’idrogeno in Italia è totalmente in mano a Eni e Snam che, come sappiamo, sono tra coloro che per decenni prevedono investimenti nel gas e nel petrolio. Ne hanno parlato approfonditamente i ricercatori di ReCommon nel loro report “La montatura dell’idrogeno”. Per essi l’idrogeno si dovrà fare utilizzando il gas.
L’altro esempio invece ci racconta delle guerre ad alta o bassa intensità, destabilizzazioni, devastazioni ambientali e sociali in atto in questo momento per il possesso dei minerali strategici per le nuove tecnologie di comunicazione e di accumulo di energia. Se la transizione per i Paesi occidentali si dovrà fare sulla pelle di quelli impoveriti del sud del mondo, e se la quantità di energia e quindi CO2 necessaria per estrarre e trasportare minerali e materie prime per non inquinare i nostri Paesi ricchi e avanzati si scaricherà nei luogi di estrazione, non solo non avremmo un saldo negativo di emissioni a livello globale, ma non sarebbero eliminate le cause per cui la casa comune rischia di diventare invivibile per il genere umano. Il modello di sviluppo lineare, estrazione-lavorazione-trasporto-commercializzazione-rifiuto si è basato fino a oggi su profonde iniquità tra aree del globo. Non basterà dire, come fanno le grandi corporation del settore, di fare idrogeno se il gas che arriva è controllato da un dittatore in Azerbaijan, il litio è stato preso a qualunque costo umano e ambientale in Africa o America latina.
Proviamo allora a ridisegnare, forti delle tecnologie oggi disponibili, a immaginare cioè come ciascun territorio, Comune piccolo o grande, possa costruire dal basso un proprio piano energetico per la Giusta Transizione. Un piano che abbia intanto al centro l’opzione produzione/consumo, che immagina un mix di forme di produzione, che recupera, riutilizza, rigenera aree del territorio per la produzione di energia, che individua risorse utilizzabili senza consumare suolo, sottrarre aree all’agricoltura, immettere nuove emissioni climalteranti e nocive. Ci sono molte combinazioni possibili, e ogni territorio ha la sua “storia energetica”.
Ecco un esempio per capire in quale direzione si può andare, abbandonando la falsa opzione dell’unica soluzione che salva tutti. A Portland, una quota di energia prodotta viene da idroelettrico installato nelle tubazioni dell’acqua potabile, sic et simpliciter. Qualche Comune ci risulta, non è dotato di tubature dell’acqua? E perché questa è una idea che va verso la Giusta Transizione? Perché non produce emissioni (tranne quelle per la produzione di turbine, sempre che l’impianto non sia alimentato da energia rinnovabile!), riusa e rigenera ciò che già esiste, mette a valore quanto il territorio già dispone, non sottrae suolo ad altri usi. Quanto fabbisogno del territorio coprirebbe questa soluzione? Saranno tante piccole soluzioni, territorializzate, in autoconsumo, quelle che ci porteranno a una Giusta Transizione. ◘
di Fabio Neri