Francesca Mannocchi è una giornalista freelance che ha raccontato gli scenari di guerra dei primi venti anni del terzo millennio, ha percorso le piste dei profughi, ha svelato le torture nei campi di concentramento libici, ha mostrato le violenze sulle donne. I suoi reportage sia che provengano dall’Afghanistan, sia dall’Iraq o dalla Libia lasciano con il fiato sospeso. La profondità delle sue analisi e delle situazioni descritte la pongono spesso in primo piano. Si è trovata all’aeroporto di Kabul in mezzo alla calca di persone che cercava scampo all’arrivo dei talebani. A lei chiediamo di fare il punto della situazione.
Dopo il ritorno al potere i talebani si sono impegnati in una campagna di dichiarazioni volte a rassicurare l’Occidente circa le loro buone intenzioni di rispettare i diritti umani, le minoranze e le donne. A un mese di distanza come stanno le cose?
«I proclami non corrispondono alla realtà, come emerge dalle notizie che arrivano da diverse parti del Paese. I fatti di cronaca, spesso contraddittori, dimostrano che i talebani hanno una doppia faccia, come doppia è la natura che li anima in questo momento. Da una parte mostrano un volto presentabile, o che si impegna a essere presentabile e che prende le mosse dagli accordi di Doha, cioè il piano di una negoziazione politica. I talebani sanno di aver bisogno del supporto economico della comunità internazionale, perché il Paese rischia il collasso. Tutta la popolazione vive grazie al sostegno degli aiuti umanitari: sopravvive, quindi. L’altra natura dei talebani è l’anima militare, sicuramente più dura e più severa e meno incline a scendere a mediazioni politiche».
Con una divisione interna così marcata la comunità internazionale può esercitare un ruolo importante per gli assetti futuri del Paese?
«La comunità internazionale dovrebbe innanzi tutto monitorare quello che avviene nel Paese, mentre le Nazioni unite devono creare le condizioni perché le organizzazioni umanitarie possano lavorare in Afghanistan. Anche se questo significa necessariamente negoziare con i talebani, visto che il potere è nelle loro mani. Ma d’altronde abbiamo negoziato con i talebani l’evacuazione dei nostri connazionali, a maggior ragione è necessario trattare per gli aiuti umanitari. Ovviamente è impensabile oggi una presenza militare occidentale: deve rimanere la presenza umanitaria, perché a pagare le spese di questa storia dopo vent’anni di talebani sono ancora i civili».
La presa del potere dei talebani sembra aver creato le condizioni per un nuovo radicamento ed espansione del jihadismo in Afghanistan. Come è possibile che due fondamentalismi possano convivere?
«Un report delle Nazioni unite dello scorso maggio segnalava la presenza di circa 8.000/10.000 combattenti stranieri in Afghanistan. È difficile dire cosa succederà. Certamente possiamo sottolineare l’altissimo valore simbolico di questa vittoria su tutta la comunità jihadista. I talebani, che pure hanno una visione nazionalista e non internazionale del jihadismo, sono in questo momento portatori di una grande vittoria simbolica costruita sulla pazienza strategica. L’aver aspettato vent’anni ha portato di nuovo i talebani al potere, di nuovo una forma di fondamentalismo al potere».
Ma allora che senso ha che l’Occidente chieda ai talebani l’impegno per contrastare Al Qaeda? In altre parole si tratta della stessa famiglia.
«Non credo che questo possa avvenire, perché Al Qaeda è stata una delle prime organizzazioni a complimentarsi con i talebani. Non dimentichiamo che i talebani attraverso il leader Abdul Ghani hanno avuto diversi contatti con Al Qaeda in questi anni. Credo che i talebani non abbiano interesse a essere parte di attentati fuori dal Paese, ma quanto possano contrastarli è difficilissimo da prevedere».
Il governo talebano, soprattutto l’ala più politica, ha chiesto a gran voce il riconoscimento del proprio governo da parte della comunità internazionale. Chi sono i loro veri alleati?
«A sostenere i talebani in questo momento è il Pakistan che ha tutto l’interesse alla formazione del governo, e non è un caso che il potentissimo capo dei servizi segreti pakistani, Faiz Hameed, si trovi in questa fase a Kabul. Quindi il Pakistan dal punto di vista regionale è il loro grande sostenitore».
Che idea si è fatta del disfacimento dell’esercito afgano di fronte all’avanzata dei talebani e della fuga degli americani?
«L’esercito statunitense non si è ritirato di fronte all’avanzata dei talebani, perché non era sul terreno. Sul terreno c’era l’esercito afgano. L’esercito americano ha portato a termine un ritiro che era già in atto dal 2014 e faceva parte degli accordi di Doha, con una previsione di completamento delle operazioni fissato a marzo del 2021 e poi prorogato dall’amministrazione Biden ad agosto 2021. È stata invece improvvisa la presa del potere da parte dei talebani, talmente inaspettata che gli americani si sono trovati a effettuare il ritiro delle truppe non sotto la gestione di Ashraf Ghani, come avevano previsto, ma con il Paese in mano ai talebani, e tutto ciò ha reso complicato un ritiro che era nei tempi stabiliti».
Quale ruolo possono avere le donne che hanno avuto il coraggio di opporsi all’insediamento dei talebani?
«Le donne che abbiamo visto manifestare sono coraggiosissime e meritano tutto il nostro rispetto e tutto il nostro sostegno, ma sono una sparuta minoranza. La stragrande maggioranza delle donne vive in aree in cui i loro diritti erano gli stessi un mese fa, due mesi fa, cinque anni fa, dieci anni fa. Donne a cui sostanzialmente la vita è cambiata poco negli ultimi vent’anni. Detto questo, l’Afghanistan che oggi i talebani si trovano a governare non è il Paese che avevano governato 25 anni fa. È cresciuta una intera generazione di uomini e di donne che hanno più familiarità con l’acquisizione dei diritti civili, la libertà e l’idea di democrazia ed è una generazione con cui i talebani devono fare i conti».
Quindi le notizie sulla ondata di rapimenti, omicidi e ritorsioni di cui qualche giornalista ha parlato, tali azioni sono già in atto.
«I rapimenti, le ritorsioni, gli attentati sono in corso da anni. Se guardiamo i dati degli ospedali di Kabul dal 2010 al 2021, i pazienti con ferite da guerra sono in aumento. Nell’ospedale di Emergency sono aumentati del 170%; questo racconta un Paese che non scopre ora che i talebani si macchiano di crimini orrendi da 20 anni, e il Paese è rimasto solo. Una solitudine altamente simbolizzata dalla evacuazione all’aeroporto di Kabul, in cui migliaia di persone cercavano di scappare facendo pressione e ressa ai cancelli e correndo lungo le piste dietro agli aerei in decollo, mentre i soldati sparavano in aria. Accanto a loro si svolgevano le operazioni di imbarco dei diplomatici europei, dei giornalisti e di chi aveva il permesso di uscire. È una
Redazione Altrapagina