Un osservatorio privilegiato sull’Afghanistan (e non solo) è quello di Emergency, organizzazione di fama mondiale, permeata dal grande spessore umano e morale di Gino Strada e dall’umanità dei tanti operatori sanitari che vi prestano servizio con abnegazione e coraggio. Uno di questi è Francesco Ricci, nostro conterraneo, tornato dall’Afghanistan un mese fa, al quale chiediamo una testimonianza.
Ci parli dei vostri ospedali in Afghanistan, in quale condizione si trovano?
«Siamo in Afghanistan dal ’99, quando abbiamo aperto il primo centro chirurgico in Panjshir, sono seguiti l’ospedale di Kabul e quello di Lashkar Gah, poi la nostra rete si è sempre più allargata e radicata nel territorio. Oltre a questi tre centri chirurgici sono stati aperti centri di primo soccorso, sparsi su tutto il territorio afgano, con l’intento di aiutare le persone che abitano nei luoghi più remoti, creando delle specie di pronto soccorso che hanno la funzione di stabilizzare i pazienti che non riuscirebbero a raggiungere i centri chirurgici, dove vengono successivamente inviati con le nostre ambulanze. Questo ha fatto sì che il nostro lavoro potesse essere efficace e ci ha permesso di guadagnare rispettabilità, in quanto abbiamo curato un gran numero di persone senza domandarci a quale fazione appartenessero. Non abbiamo richiesto documenti o fatto domande per conoscere l’appartenenza politica. Il nostro lavoro, in vent’anni, non si è mai fermato: ricordiamoci che ciò che è accaduto in Afghanistan nell’ultimo mese in realtà va avanti da vent’anni. Come dicevo, gli ospedali non si sono mai fermati, neanche nei momenti più critici del recente conflitto, e stanno funzionando bene. A Kabul in questo momento si riesce a tenere anche una ventina di posti letto vuoti in caso di emergenze, a Lashkar Gah sono stati riammessi anche i pazienti con traumi civili e ad Anabah hanno iniziato a ritornare le donne gravide. La vocazione di Emergency è stata sempre quella di garantire le migliori cure, in modo gratuito e in un ambiente confortevole e accogliente. L’intenzione è quella di prendersi cura del paziente a 360°».
Dal punto di vista sociale cosa ha osservato? Quali cambiamenti si sono verificati durante la sua permanenza?
«Bisogna premettere che noi operatori abbiamo pochissimo tempo libero, la nostra vita si divide tra il lavoro in ospedale, in cui i turni possono essere molto lunghi, e la casa. Quello che ho osservato è che nella popolazione è aumentata la paura, perché la conquista dei talebani ha portato con sé una grossa incertezza per il futuro. Una parte del team è internazionale, ma ci sono molti operatori sanitari afgani ed essi ci riportano le notizie. A parte questa incertezza, per ora grandi stravolgimenti non ci sono stati, i nostri colleghi si recano al lavoro senza problemi. Mentre prima c’era la paura dei conflitti a fuoco adesso c’è quella per il futuro, una paura più strisciante dovuta all’instabilità politica. La gente non sa cosa accadrà con il nuovo governo».
In quale clima stanno lavorando medici e operatori di Emergency?
«È un clima più tranquillo da quando sono terminati i combattimenti, questo ha permesso a noi operatori di concentrarci meglio sul lavoro ordinario e, adesso, non siamo in una condizione emergenziale come quella di un mese fa. Bisogna considerare che per vent’anni la situazione è stata immutata, c’era sempre uno stato di guerra. Ciò che ci riferiscono i nostri collaboratori è una situazione in evoluzione. Le incognite maggiori riguardano soprattutto le donne e le minoranze, che stanno aspettando di vedere come i talebani si comporteranno».
Inevitabilmente le chiediamo quale sia la condizione delle donne in questa fase.
«È difficile tracciare ora un bilancio. Le immagini e le notizie che giungono dal Paese ci mostrano un cambiamento per la condizione delle donne. Quello che accadrà realmente si vedrà quando i talebani avranno instaurato un vero e proprio governo, per ora c’è un esecutivo ad interim. Su questo punto c’è però da distinguere tra la condizione delle donne nelle città, dove le cose erano migliorate molto e ora si teme di perdere dei diritti, e quella delle donne delle province e delle zone rurali che nel corso degli anni non hanno sperimentato un’emancipazione significativa, per cui non vedono mutare la propria situazione. Le molte infermiere che lavorano con noi non hanno avuto imposizioni riguardo al loro abbigliamento e in alcuni casi hanno liberamente scelto di adottarne uno più tradizionale. Questo per quanto riguarda i centri più grandi, in quelli più piccoli la maggior parte di esse indossava già il burqa. Di certo c’è grande preoccupazione per il futuro».
I cittadini afgani in che modo percepivano la presenza dei talebani e in che misura temevano la loro presa del potere?
«I cittadini di Kabul hanno comprensibilmente paura. Non si aspettavano che i talebani prendessero il potere così rapidamente, generando una situazione di incertezza che ha causato un crollo delle loro speranze. Quello che si percepisce è proprio la mancanza di fiducia nel futuro. L’assenza di combattimenti ha certamente portato una sorta di quiete nel Paese, ma molti aspettano di capire in che direzione si muoverà la nuova leadership».
Lei presta servizio in Afghanistan da anni, quali aspetti della sua esperienza vorrebbe sottolineare?
«Frequento l’Afghanistan dal 2014, i colleghi sono diventati amici, c’è un confronto continuo. È un’esperienza di vita e professionale notevole. Ci si confronta con una casistica di traumi di guerra la più alta al mondo. Ciò che si vede lì non si vede altrove. Un ospedale nel Panjshir era nato come centro chirurgico per traumi di guerra e nel tempo si è evoluto come centro di maternità dove nascono tuttora tra i 500 e i 600 bambini al mese, in un contesto in cui il tasso di mortalità infantile è 99 volte più alto di quello italiano. Noi offriamo procedure standardizzate a livello europeo e cure gratuite in un Paese in cui le cure sono a pagamento. È un messaggio rivoluzionario». ◘
di Romina Tarducci