Mercoledì, 04 Dicembre 2024

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La sconfitta in Afghanistan

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Stefano G. Azzarà (Messina, 1970) insegna Storia della filosofia presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Urbino. È direttore della rivista filosofica "Materialismo Storico" ed è stato allievo di Domenico Losurdo.

Sin dall’ inizio abbiamo, per giorni e giorni, assistito a dichiarazioni che hanno cercato disperatamente di occultare il fatto che i talebani hanno vinto e che le potenze occidentali hanno perso. Qual è a suo giudizio la portata di tale sconfitta?

«Si tratta di una sconfitta di grande significato storico-politico, perché dimostra che gli Stati Uniti non sono più in grado di proporsi come garanti dell’ordine mondiale. Da tempo hanno rinunciato a perseguire questo obiettivo tramite la costruzione del consenso e hanno scelto quello della guerra. Nemmeno sul piano militare, tuttavia, sembrano capaci di resistere a conflitti di lunga durata che inevitabilmente assumono forme non convenzionali e i caratteri della guerriglia partigiana. Non sono d’accordo però nel paragonare la sconfitta statunitense in Afghanistan a quella del Vietnam. L’indipendenza del Vietnam era chiaramente un evento rivoluzionario, anche in considerazione del ruolo dirigente delle forze comuniste. In Afghanistan la natura del processo è diversa, visto che si è trattato di una vittoria dei talebani, e tuttavia siamo comunque nel contesto di una emancipazione dal dominio coloniale e dunque di una risposta alla forte spinta alla ricolonizzazione del mondo che ha accompagnato la globalizzazione capitalistica».

Di tale débâcle ha colpito il crollo subitaneo dell’esercito lealista e l’abbandono del cospicuo e sofisticato arsenale militare da parte degli americani.

«Non c’è dubbio che l’offensiva dei talebani non abbia incontrato resistenza o comunque una resistenza limitata, in alcune aree e presso alcuni gruppi sociali. Anche se nessuno può dire con certezza che ci sia un consenso generalizzato nei loro confronti, quello che è sicuramente certo e provato è il contrario e cioè che in 20 anni di occupazione non si è consolidato nessun consenso nei confronti della libertà americana e del modello occidentale».

Vent’anni di guerra in Afghanistan sono costati agli Stati Uniti più di duemila miliardi di dollari. Quanto pesa lo stato attuale dell’economia nelle scelte dell’ Amministrazione Biden? E come ne esce ridimensionato il ruolo degli Usa come super-potenza?

la sconfitta altrapagina mese ottobre 2021 3«La questione economica è stata sicuramente importante. L’Amministrazione Biden mi pare abbia ereditato da quella Trump una maggior introflessione negli affari interni americani rispetto alla precedente linea Clinton od Obama (questo aspetto è anche un momento del riassorbimento delle pulsioni populiste che Trump aveva cavalcato, con le loro preoccupazioni prevalenti per la situazione economica interna). Questo non significa però che gli statunitensi abbiano rinunciato al loro ruolo storico di gendarmi del mondo. Anzi, sono sempre più concentrati sul quadrante del Pacifico, al fine di isolare la Cina per poi smembrarla (vanno in questa direzione le manovre politiche per la costruzione di una sorta di “Nato del Pacifico”). Dobbiamo capire che la crisi dell’Impero americano è la crisi di un mondo e l’annuncio di un mondo interamente nuovo, nel quale la distribuzione globale delle risorse sarà molto diversa da quella attuale. La mia paura è che la guerra, nella logica dell’imperialismo, sia già scritta nelle cose».

Nelle guerre imperiali dell’ultimo quarto di secolo, quale ruolo hanno avuto i mezzi di informazione di massa per giustificare le aggressioni a popoli interi?

«La propaganda è una cosa normale in ogni conflitto e questo non deve scandalizzare. Ciò che è preoccupante è invece la persistenza di un monopolio informativo, di una vera e propria industria capitalistica dell’informazione e della cultura, che è oggi incontrastato o contrastato solo da iniziative dal basso di natura artigianale, che spesso debordano nel complottismo e nella fabbricazione dilettantistica di quelle fake news che le centrali informative internazionali confezionano invece in maniera professionale».

Il Presidente della Repubblica Mattarella ha detto che l’Alleanza Atlantica rappresenta una pietra angolare per la politica di sicurezza dell’Italia. Che fine fa il principio della eguaglianza tra le nazioni ed il diritto di ogni Paese a veder rispettata la propria sovranità se i Paesi più forti disattendono tali principi senza subire alcuna sanzione?

«Il principio di eguaglianza e autodeterminazione è un principio formale che deve fare i conti, ovviamente, con i rapporti di forza reali. Ciò non significa che non sia importante e che le istituzioni internazionali come l’Onu siano solo una foglia di fico. L’ideologia non è tutto ma non è nemmeno il nulla. Perché diventa facile mostrare quanta clamorosa contraddizione ci sia tra i proclami del liberalismo e del “dirittumanismo” e le pratiche concrete che i Paesi che a questi principi si richiamano mettono in atto. In questo senso, questa ideologia a un certo punto può finire per rivoltarsi contro i propri stessi produttori, mostrandone la profonda ipocrisia».

Che ruolo ha avuto l’Italia nell’avventura militare in Afghanistan?

«C’è poco da dire. Abbiamo pagato una delle tante clausole del Patto Atlantico. L’Italia è una semicolonia statunitense, dopo esser stata una semicolonia tedesca dal momento dell’intesa tra fascismo e nazismo».

I crimini di guerra perpetrati in Afghanistan hanno prodotto una lunga scia di sangue: 150.000 civili uccisi e stragi di bambini avvenute fino a pochi giorni fa.

«Il Paese della libertà, dei diritti umani e della democrazia, quello che fa la lezione a tutti gli altri, è il primo Paese a rischio per quanto riguarda i diritti umani ed è il pericolo maggiore per la pace e per la sicurezza del mondo. Le recenti notizie sulla pianificazione dell’assassinio di Assange dovrebbero far riflettere il sistema industriale dei media».

Gino Strada, in una delle ultime interviste concesse pochi mesi fa, ricordava come il burqa e il corpo delle donne siano stati soltanto un pretesto per imporre, con la forza delle armi, una cultura diversa. Nel suo saggio Democrazia cercasi  ha sottoposto a una critica radicale il tema dei diritti umani.

«Abbiamo assistito a un fenomeno fantastico: non pochi nel deplorare la vittoria talebana in Afghanistan e nel versare lacrime di coccodrillo sui diritti umani del popolo afgano e delle donne hanno trovato il coraggio di richiamarsi a Gino Strada nel momento stesso in cui, in sostanza, richiedevano un nuovo intervento militare, una nuova guerra. Significa non aver capito nulla di Strada e della situazione internazionale. Gino Strada era stato uno dei pochi che sono stati capaci di uscire dal ciclo 1968-1977 in maniera dignitosa e di conservare per quanto possibile quel nucleo di dimensione politica che poteva sopravvivere anche nel riflusso. Con lui abbiamo perso uno dei compagni migliori, che nella lotta contro le guerre ha saputo rinnovare il suo antimperialismo. Tra le sue lezioni più importanti, proprio quella che ha citato e cioè la denuncia dell’uso strumentale dei diritti umani, definiti secondo gli interessi

occidentali. Questo non significa, lo ripeto, che i diritti umani non esistano, ma che vanno costruiti assieme». ◘

di Maurizio Fratta


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