Guido Viale è uno dei pochi intellettuali che riesce a pensare la crisi globale sotto molteplici profili. Sulla crisi climatica e sulla transizione ecologica ha scritto numerosi testi, per questo gli abbiamo rivolto alcune domande.
I cambiamenti climatici catastrofici stanno accelerando di frequenza e di intensità, provocando eventi estremi con effetti mai visti. È possibile continuare di allarme in allarme senza che la comunità internazionale riesca a invertire rotta?
«Chi di fatto contesta le affermazioni dei climatologi sono i politici. Nelle parole continua il blabla di cui parlava Greta Thunberg nell’ultimo incontro di Milano prima del G20, ma nei fatti scopriamo che sono ben 30 mila le proposte di correzione del documento che dovrà essere discusso alla Cop26 di Glasgow. Un chiaro tentativo per correggere al ribasso gli impegni che questo vertice dovrebbe assumere».
Quali sono i motivi?
«È evidente la volontà di continuare sulla strada dei consumi fossili perché non si ha la minima idea per affrontare una situazione che invece richiede dei cambiamenti drastici. La classe politica, non solo italiana, è stata selezionata per gestire il mondo così com’è, pensando che questo meccanismo possa continuare a tempo indeterminato. Che si tratta di cambiare, invece, lo hanno capito i giovani e lo stanno dimostrando come nessun altro, perché è della loro vita che si sta decidendo e quindi sono gli unici a essere preparati a delle risposte anche radicali, mentre i politici non sono capaci di pensare in maniera diversa».
Gli ambientalisti suggeriscono che l’uscita dalle fonti fossili è l’unico modo per salvare il pianeta. Eppure nell’ultimo anno la richiesta di carbone per produrre energia ha subito una impennata.
«Purtroppo questa non è l’unica via per uscire dalla crisi che stiamo attraversando. C’è un’altra crisi altrettanto importante e di cui si parla meno: la crisi della biodiversità. Anche questa richiede degli interventi drastici soprattutto in agricoltura e negli allevamenti industriali, e ciò non può avvenire se non a seguito di un cambiamento radicale delle nostre vite e del nostro modo di alimentarci».
Recentemente frange di ambientalisti hanno manifestato di fronte alla Borsa di Milano. Quale relazione esiste tra finanza e fonti fossili?
«I combustibili fossili godono di ottima salute dal punto di vista finanziario. Non sarebbe possibile continuare con l’attuale regime di prospezione, di estrazione, di trasporto: stiamo parlando delle lobby degli oleodotti, dei gasdotti, degli impianti di termo-generazione e di raffinazione e senza massicci finanziamenti da parte delle banche non sarebbe possibile continuare con questo sistema. Anche l’aumento impressionante del prezzo del metano avvenuto recentemente, e a cascata di tutti gli altri combustibili fossili e di tutte le merci, dipende dalla finanza. Per la commercializzazione del metano vengono usati i futures, titoli di credito, pezzi di carta con i quali si scommette sull’aumento del prezzo futuro del gas».
Le principali 35 banche del mondo hanno investito negli ultimi sei anni 2.700 miliardi di dollari in attività estrattive. Paradossalmente è con i soldi di tutti che il sistema finanzia le fonti fossili.
«Le banche possono investire non solo soldi pubblici ma anche privati senza subire il controllo delle banche centrali. La responsabilità per questo modo in cui sta andando avanti il mondo, comprese le guerre, fatte in gran parte per il controllo dei giacimenti fossili, o delle vie di comunicazione attraverso cui transitano i fossili, è di un numero sempre più ristretto di gestori della finanza mondiale. E quindi o riusciamo a rovesciare questo stato di cose, oppure la vita umana sul pianeta è condannata se non proprio all’estinzione, a condizioni di esistenza molto difficili. In altre parole l’alta finanza ci sta riportando all’età della pietra».
Il premier Draghi e il ministro Cingolani sono diventati paladini della svolta ecologista a livello europeo. La convince la via italiana alla transizione ecologica?
«No, è semplicemente ridicola. Il premier Draghi ha fatto la carriera nel mondo finanziario, in Italia e negli Stati Uniti, e in Europa non ha mai pronunciato una parola sui cambiamenti climatici. A dimostrazione della sua vacuità su questo tema, si è dotato di un ministro dal nome altisonante “Ministro della transizione ecologica”, che non sa minimamente cosa sia la transizione ecologica ed è organicamente legato ai grandi gruppi energetici che vivono di petrolio, gas e combustibili fossili come Eni ed Enel, a cui sta chiaramente affidando il compito di trovare le soluzioni. Per questo è stato ribattezzato il “Ministro della finzione ecologica”, dopo alcune affermazioni sul nucleare, sulla fissione senza scorie, fusione, l’idrogeno grigio-blu, il metano, gli inceneritori, che dimostrano la sua assoluta incompetenza. Ma nessuno dei due ha la minima idea che si tratta di un mutamento radicale degli assetti produttivi, occupazionali e sociali. E che bisogna cambiare paradigma e abbandonare l’idea della crescita».
La scelta di far promuovere la transizione ecologica attraverso la macroproduzione di energia avvalendosi delle multinazionali nasce da questa improvvisazione?
«Stanno facendo il contrario di quello che si dovrebbe fare. Le misure di conversione ecologica hanno un duplice scopo: mitigare i cambiamenti climatici e soprattutto migliorare le condizioni di adattamento per le future generazioni, un obiettivo che non può che tradursi in una “deglobalizzazione” guidata verso comunità territoriali il più possibile economicamente autonome. Le fonti rinnovabili funzionano se sono molteplici, diffuse, differenziate e soprattutto impostate su un rapporto di reciprocità. Ciò si realizza all’interno di piccole comunità, con il concorso di più soggetti per la realizzazione di un’autonomia energetica. Quello che sanno fare le grandi imprese è costruire impianti per sfruttare al massimo i combustibili fossili. E la cosa più grottesca è che l’Enel investe moltissimo in energie rinnovabili all’estero, mentre continua a programmare investimenti nei combustibili fossili per il rinnovo degli impianti energetici di Civitavecchia, di Brindisi e in Sardegna, attualmente a carbone, che dovranno essere trasformati in impianti a gas entro il 2025».
Lei parla di una produzione energetica su basi territoriali e decentralizzata. Ma come si realizza?
«Carbone, petrolio e gas devono essere abbandonati; l’economia deve mettersi in grado di alimentarsi solo con fonti rinnovabili: con una impiantistica che può essere diffusa e distribuita a livello locale, all’interno di comunità più o meno vaste, senza il gigantismo degli impianti dell’economia fossile. Il sole è dappertutto così come il vento. Si possono fare grandi impianti di eolico in alcune parti d’Italia, si possono sfruttare cascate con caduta di acqua senza bisogno di costruire grandi dighe, è possibile ottenere la generazione di energia elettrica utilizzando i tetti degli stabili esposti al sole... Questo sistema deve alternare consumo e produzione. Si tratta di un interscambio da realizzare tra pochi soggetti, connettendosi poi alle reti nazionali e internazionali soltanto nei momenti eccezionali di eccesso di produzione. Ciò è esattamente il contrario di quello che si sta cercando di fare costruendo grandi impianti che costano milioni di euro». ◘
di Antonio Guerrini