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Dante eretico?

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A 700 anni dalla sua morte, Dante non sembra più in odore di eresia. A cominciare dall’enciclica del 1921 In Praeclara summorum di papa Benedetto XV, pubblicata in occasione dei 600 anni dalla morte del poeta, i vertici della Chiesa non hanno perso occasione fino ad oggi di commemorarne vita e opere, rivendicandone la piena «cattolicità». Emblematica l’affermazione di Paolo VI nel 1965: «Dante è nostro».

Ma è davvero così? Se così fosse, non si capirebbe perché, per secoli, due delle principali opere di Dante, la Monarchia e la Commedia, siano state severamente censurate dalla Chiesa, e inserite ambedue, fino alla seconda metà del Novecento, nell’Index librorum prohibitorum tridentino; in particolare, la Commedia si ritrovò nel primo Index librorum prohibitorum del 1613, in cui se ne consigliava un’edizione espurgata, orribilmente mutilata. Peraltro, da subito, sin dal 1327, il cardinale Bertrando del Poggetto, nipote del papa avignonese Giovanni XXII, avrebbe voluto dare pubblicamente alle fiamme persino le ossa di Dante; nel 1329 fece però bruciare sul rogo a Bologna una copia della Monarchia, accusata di eresia.

In realtà, Dante, come noto, non ha avuto la mano leggera su Chiesa e pontefici: la Commedia e altri suoi scritti pullulano di feroci invettive antiecclesiastiche e antipapali. Egli condanna all’inferno, tra i simoniaci, ben tre papi, Niccolò III (Inf. XIX, 46 ss.), eletto nel 1277, Bonifacio VIII, «lo principe de’ nuovi Farisei» (Inf. XXVII, 85), che della Chiesa evangelica non esitò a «fare strazio» (Inf., XIX, 57) e Clemente V, «un Pastor sanza legge» (ivi, 84), il cui successore Giovanni XXII, papa dal 1316 al 1334, era così ricco e corrotto, scrive Dante, da poter ben dire «ch’io non conosco il pescator né Polo», cioè gli apostoli Pietro e Paolo (Par. XVIII, 136).

Inoltre, Dante appare molto ambiguo sui sacramenti. Nella Commedia cita sì il battesimo, ma tace su tutti gli altri. E sul «peccato originale» sembra più vicino a Pelagio che ad Agostino. Ad Adamo, beato in paradiso alla sinistra di Maria (alla destra c’è san Pietro), fa dire: «Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno» (Par. XXVI, 115-118), cioè non la concupiscenza, ma la tracotanza, la hybris fu la causa del peccato. Tesi chiarita anche da Marco Lombardo nel Purgatorio: «Ben puoi veder che la mala condotta / è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo, / e non natura che ‘n voi sia corrotta» (XVI, 103-105), e ripresa nel Paradiso anche da Beatrice (VII, 115-117). Sarà un caso che nello splendido quadro finale della «candida rosa dei beati», la biblica Eva, «quella ch’è tanto bella», è posta da sola ai piedi di Maria, sullo «scanno» di maggior onore, sopra quello di Beatrice e degli altri beati (Par. XXXII, 3-6)? Insomma, Dante non nega il biblico peccato originale, ma ritiene che sia stato totalmente redento dalla passione del Cristo, che ci ha restituito una natura integra, non corrotta, sì che la salvezza eterna dipende, come predicava Pelagio, prevalentemente da noi, dalle nostre azioni, dalla nostra «libertà d’arbitrio» e moralità.

Questo fa di Dante un eretico? Sicuramente non ne fa un cattolico ortodosso. Certo, è difficile giudicare fino a che punto egli rifiutasse non la Chiesa in sé, quale istituzione sacra, ma i vertici ecclesiastici di allora, dal poeta bollati sarcasticamente dei vizi di corruzione, simonia e brama di potere temporale. Ecco, su quest’ultimo punto, secondo alcune recenti interpretazioni, Dante anticiperebbe la moderna laicità. Infatti, prima guelfo bianco, poi ghibellino, sostenne sia l’autonomia politica delle città comunali e dei re e principati locali dal papa, sia la separazione dei due poteri, spirituale e temporale: ambedue i poteri, a suo avviso, derivano direttamente da Dio, e nessuno è soggetto all’altro. Dante si oppose duramente alla teoria «decretalista» e teocratica della superiorità del Papato sull’Impero. Non so se ancora oggi le gerarchie ecclesiastiche glielo abbiano davvero perdonato.

di M.M.


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