Intervista a ANGELO MASTRANDREA, scrittore, saggista.
Angelo Mastrandrea, giornalista de il manifesto, di cui è stato anche vice direttore, e curatore dell’inserto settimanale ecologista Extraterrestre, scrittore reporter tra i più prolifici, affida i suoi reportage a "Internazionale", Venerdì di "Repubblica", "Le monde diplomatique". Recentemente ha pubblicato il libro L’ultimo miglio (Manni editore), un reportage dal mondo di Amazon di Passo Corese, in cui descrive un ambiente di lavoro così perfetto da risultare inquietante, organizzato con una disciplina militare applicata da un algoritmo, nuova frontiera di una economia capitalista sempre più autoritaria.
La riorganizzazione economica del sistema capitalista globalizzato sta avvenendo sotto la spinta di due dinamiche principali: logica materiale e logica virtuale; movimentazione merci e informatica; logistica ed e-commerce. È un effetto della pandemia o è una dinamica strutturale del sistema?
«La rete di trasporti globale e le autostrade virtuali, infrastrutture del capitalismo globalizzato, c’erano prima del Covid e non si sono fermate durante la pandemia. Quest’ultima le ha solo rese più evidenti, ma ne ha pure mostrato i limiti e l’insostenibilità. I blocchi nelle forniture globali, con le file di navi portacontainer davanti al porto di Los Angeles, stanno inducendo a ripensare il modo in cui si producono e si smistano le merci. Se a Natale dovessero scarseggiare i regali, sarebbe una spia evidente delle sofferenze dell’intero sistema».
Lei ha studiato il sistema Amazon nel magazzino della multinazionale a Passo Corese. Può spiegare l’organizzazione del lavoro all’interno di questo centro di distribuzione?
«È come una catena di montaggio ad alta tecnologia. La differenza vera è che a guidare l’organizzazione del lavoro è un’intelligenza artificiale. Il processo garantisce una grande efficienza, ma non tiene in considerazione fattori umani come la stanchezza, un improvviso bisogno fisiologico o cose del genere. La disciplina all’interno dello stabilimento è ferrea e c’è una grande solitudine nei lavoratori, che non hanno quasi contatti tra loro. Mi dicono che Amazon abbia abbandonato di recente l’imposizione addirittura del modo di camminare nei corridoi dell’azienda, a passo veloce ma non troppo, per essere efficienti e allo stesso tempo evitare incidenti».
Quale funzione hanno gli algoritmi nella organizzazione e nella velocizzazione del lavoro? La nuova schiavitù si veste del volto anonimo e più pericoloso dell’informatica?
«Come dicevo prima, essi svolgono un ruolo fondante. Soprattutto, non ammettono ritardi né errori. Questo è disumano».
In questa nuova dimensione come è mutata la dinamica sindacale?
«Per la prima volta, la scorsa primavera tutti i lavoratori di Amazon in Italia, compresi i corrieri che in genere dipendono da aziende esterne, hanno scioperato. Si è trattato di un evento a suo modo storico, che ha costretto la multinazionale a scendere a patti, dopo che per anni il sindacato all’interno degli stabilimenti non esisteva e non era neppure contemplato. Questo vale pure per il resto della logistica, dove i lavoratori hanno cominciato ad autorganizzarsi e i sindacati di base sono riusciti a ottenere buoni risultati nelle contrattazioni di secondo livello, quelle con l’azienda».
La diffusione delle merci è diventata più importante della produzione delle merci stesse, e in questa nuova mappa globale un ruolo importante è giocato dagli scali marittimi in cui arriva e parte la maggior parte delle merci prodotte. Come si è arrivati a questo punto e perché?
«Quanto più la produzione di merci, o di semplici componenti, si spostava fuori dall’Italia, in particolare verso Oriente per risparmiare sul costo del lavoro, tanto più aumentava l’importanza dei porti, come luoghi di arrivo e partenza. Per questo il loro controllo è diventato centrale. Lo ha capito bene la Cina, che dopo essersi accaparrata fette consistenti di produzioni occidentali ha cominciato a comprare gli scali, per controllare le porte di accesso all’Europa e l’intera filiera del trasporto».
Negli scali portuali, economia legale ed economia illegale si confondono. Pare che la criminalità abbia capito prima di altri quali siano le dinamiche del sistema. Quale ruolo ha la criminalità in questa più evoluta forma di capitalismo aggressivo e cosa transita nelle vie marittime dell’economia illegale?
«L’economia illegale adotta le stesse regole del capitalismo avanzato. Per questo droghe e armi entrano nei nostri porti nascoste nelle stesse navi portacontainer che trasportano merci essenziali o beni di consumo. Poi ci sono i rifiuti, che spesso seguono rotte inverse, in uscita dall’Europa verso l’Africa e l’Estremo Oriente. Sono l’altra faccia di una stessa medaglia. Quella invisibile».
Quella descritta da Angelo Mastrandrea sembra l’alba di un mondo nuovo fondato su una economia che mette insieme cose antiche e cose nuove. A nord l’ingresso delle multinazionali dell’e-commerce e della logistica, a sud la commistione di economia legale ed economia illegale. Nella parte più industriale del Paese si sta materializzando un sistema produttivo che realizza il sogno nel cassetto di sostituire il lavoro umano con le macchine già presente dai tempi della prima rivoluzione industriale. Nel meridione la criminalità organizzata si incardina negli spazi residui della economia legale. Il tessuto dei trasportatori è infiltrato pesantemente da 'ndrangheta, mafia e Casalesi, organizzazioni criminali che da decenni si spartiscono il lucroso trasporto dei rifiuti verso l’altra sponda del Mediterraneo e grazie a colpevoli agganci con pezzi di apparato statale. Affari d’oro sporchi di sangue, che mischiano commercio di rifiuti, di armi e di droga, come emerge dai fili recisi dell’inchiesta di Ilaria Alpi in Somalia sulle navi dei veleni e dai misteri della Moby Prince nel porto di Livorno, a due passi dalla base Usa di Camp Darby. Indagini rimaste nella nebbia dei misteri d’Italia. ◘
di Antonio Guerrini