Il lavoro centrato sull'ambiente

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Intervista a MAURIZIO PALLANTE, saggista e presidente del Movimento per la decrescita felice.

la guerra dimenticata i mass shooting mese dicembre 2021 2

Maurizio Pallante si definisce “eretico e irregolare della cultura”. Laureato in Lettere, si occupa di economia ecologica e tecnologie ambientali. Nel 2007 ha fondato il Movimento per la decrescita felice, nel 2019 l’associazione politico-culturale Sostenibilità Equità Solidarietà. L’ultimo dei suoi libri pubblicati è Ultima chiamata. Cosa ci insegna la pandemia e quali prospettive può aprirci (2021). Parliamo con lui della particolare congiuntura economica in cui ci troviamo, nell’ottica della decrescita.

Cosa ci può dire della crisi energetica e delle materie prime che si sta abbattendo anche sul nostro Paese in modo preoccupante? Sono interconnesse?

«Oltre gli aspetti speculativi su cui sarebbe necessario fare un discorso articolato, ci sono dei dati oggettivi. La produzione e il consumo di merci hanno avuto queste conseguenze:

- hanno superato le capacità della biosfera di rigenerare annualmente, con la fotosintesi clorofilliana, le quantità crescenti di risorse rinnovabili necessarie a sostenerle;

- emettono quantità crescenti di scarti biodegradabili, che superano la capacità della fotosintesi clorofilliana di metabolizzarli (le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, che per 8.000 secoli fino alla seconda metà del Settecento non hanno superato le 270 ppm (parti per milione), in meno di 3 secoli sono arrivate alle attuali 419 ppm;

- hanno consumato ingenti risorse non rinnovabili, riducendone gli stock e rendendone l’estrazione sempre più costosa e dannosa per gli ecosistemi (aumento delle tensioni internazionali e delle guerre per controllare i giacimenti);

- producono sostanze di scarto di sintesi chimica liquide, solide e gassose non metabolizzabili dai cicli biochimici, che si accumulano nell’atmosfera, nel ciclo dell’acqua e nei suoli (le discariche di rifiuti, tra cui quelli tossici), provocando forme di inquinamento sempre più gravi e accrescendo la mortalità;

- hanno dimezzato il patrimonio forestale (secondo i dati forniti da Stefano Mancuso 3.000 miliardi di alberi su 6.000 miliardi) e le popolazioni ittiche;

- hanno ridotto la fertilità dei suoli.

Se si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita, tutti i fattori della crisi ecologica si aggraveranno, fino a raggiungere il punto di non ritorno e rendere il pianeta inabitabile per la specie umana.

Per scongiurare questo rischio occorre rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, agendo in due direzioni. Primo: sviluppando le tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso dei materiali, in modo da consumare meno materie prime e meno energia per unità di prodotto. Secondo: occorre cambiare gli stili di vita, smettendo di credere che la felicità consista nel possesso di cose, in modo da ridurre la domanda e, di conseguenza, la produzione di merci».

Molti analisti affermano che stiamo pagando i costi della transizione ecologica. Possono esserci anche speculazioni finanziarie?

«Che ci siano speculazioni finanziarie è evidente: basta pensare che cosa è successo con la legge del 110% per la ristrutturazione energetica degli edifici: sono aumentati i prezzi di tutti i materiali per l’edilizia. Tuttavia è sbagliato concettualmente affermare che la transizione ecologica faccia aumentare i costi. Tornando al 110%, se si ristruttura un edificio per ridurne i consumi energetici, non si riducono solo le emissioni di CO2, ma anche i costi della bolletta in misura direttamente proporzionale. Se si lavora per ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse, la transizione ecologica non comporta un aumento, ma una riduzione dei costi. Questo dato non viene preso in considerazione perché si pensa che tecnologie meno impattanti debbano incrementare o sostituire in parte l’offerta di merci, ma non si pensa mai che devono essere utilizzate per ridurre la domanda».

Le nuove tecnologie sono fagocitanti, presentano degli aspetti negativi. Cosa intende lei per innovazione?

«Se le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate a ridurre l’impronta ecologica dell’umanità comportano grandi benefici, di cui non possiamo fare a meno se vogliamo evitare il collasso. Finora sono state utilizzate per accrescere la produttività, ma le innovazioni possono e devono essere finalizzate a ridurre la quantità di energia e di materie prime utilizzate per unità di prodotto, ad aumentare la durata di vita degli oggetti, a renderli riparabili, a progettarli in modo che alla fine della loro vita utile si possano recuperare facilmente i materiali di cui sono composti, per poterli riutilizzare. Bisogna lavorare sulle tecnologie e sui comportamenti».

Avete effettuato degli studi sugli effetti della contrazione dei consumi?

«Noi non sosteniamo che si debbano ridurre incondizionatamente i consumi, ma che occorra ridurli in maniera selettiva e governata, aumentando al contempo la domanda nei settori produttivi che riducono l’impatto ambientale: coibentazione degli edifici, energie rinnovabili, ristrutturazione degli acquedotti che disperdono fino al 60% dell’acqua emunta dalle falde idriche, agricoltura organica, riforestazioni, recupero e riutilizzo dei materiali, risanamento degli ambienti degradati, messa in sicurezza del territorio. In una parola: occorre aumentare l’occupazione nelle attività che riducono la crisi ecologica. Se si farà questa scelta, la domanda col tempo si ridurrà e alla lunga diminuirà il numero delle ore di lavoro. Non è inevitabile comunque che ciò si traduca in un aumento della disoccupazione: può tradursi in una riduzione dell’orario di lavoro giornaliero. Questa alternativa dipende da scelte di carattere politico».

Si stanno moltiplicando le esperienze di comunità decrescenti, con varie declinazioni. Ne avete osservate alcune?

«Sono realtà importanti, innanzitutto per le persone che fanno una scelta di vita che risponde alle loro esigenze esistenziali, ma anche per tutta la società, non solo perché dimostrano che un modo di vivere meno competitivo e più solidale, più in sintonia con i ritmi della natura, è possibile, ma anche perché le persone serene e realizzate contribuiscono a migliorare la qualità della vita sociale. Queste comunità si insediano nelle campagne, valorizzano l’economia di sussistenza, la biodiversità, riscoprono cultivar abbandonate, potenziano la fotosintesi clorofilliana, adottano stili di vita più lenti, non sono ossessionate dalla produttività e dal consumismo. La loro non è una rinuncia al benessere materiale della modernità, ma una scelta di vita basata su valori diversi. Un limite in alcune di esse è che tendono ad isolarsi dal resto della società, mentre sarebbe auspicabile che dimostrassero i vantaggi del loro stile di vita soprattutto a coloro che vivono con disagio i ritmi delle società industriali».

I movimenti ambientalisti sono sempre più numerosi. Pensa che possano ottenere qualche risultato?

«Troppo spesso gli ambientalisti sono portati a denunciare le criticità del sistema senza essere abbastanza propositivi. Da ambientalista io stesso, come m’impegno, tra mille contraddizioni, a essere, direi che servono meno analisi e più proposte fondate tecnicamente, sostenibili economicamente, desiderabili socialmente, di politica economica, industriale, energetica, agricola, urbanistica, ecc. Se vogliamo incidere sulle scelte decisive per il futuro della specie umana non dobbiamo mai dire un “no” senza accompagnarlo a un progetto alternativo realizzabile e vantaggioso, anche economicamente». ◘

di Romina Tarducci