AFGHANISTAN. Secondo reportage. Un paese cancellato dalla mappa geografica assieme ai suoi abitanti.
Lungo la strada, è tutto giallo. Per ore. Giallo sabbia. Giallo polvere. E a volte, grigio. Nei punti in cui è esplosa una mina. O una bomba di aereo. Poi, a un tratto, nel niente, Google Maps ti dice: Sangin. E sei arrivato. Perché in realtà, Sangin non esiste più.
Capisci l’Afghanistan solo fuori da Kabul. Sangin ha circa 20mila abitanti, all’anagrafe, è nell’Helmand, il bastione dei talebani. E dell’oppio. In vent’anni di guerra, è stata il più brutale dei teatri di battaglia: è qui che gli americani, e poi i britannici, che si sono alternati al fronte, hanno avuto il più alto numero di caduti. Le forze Nato hanno perso 3.605 uomini, in tutto. Un quinto, a Sangin. E per ognuno c’è un nome, una foto. Una storia.
Dei morti afghani, invece, non è rimasto neppure un numero. In vent’anni, non sono mai stati contati.
La strada che collega Kabul a Kandahar, le due principali città del Paese, e da cui poi prosegui per Sangin, dice molto degli americani in Afghanistan. Costruita dai sovietici, e ricostruita per 300 milioni di dollari, è stata celebrata come il simbolo di una nuova era di progresso e sviluppo: è lunga 482 chilometri, e larga a stento due corsie, senza alcuna segnaletica, con l’asfalto mezzo affondato. Per gli afghani, è “l’autostrada della morte”. E non solo per gli incidenti: ogni pochi metri, si fa di ghiaia, lì dove il cemento è saltato via insieme a uno IED dei talebani, o è crollato un ponte. Passa attraverso aree pericolose per chiunque non sia della zona, perché l’Afghanistan si governa da sé. Da sempre. Indipendentemente da chi è al potere a Kabul. E per il resto, passa attraverso macerie. Macerie di case di fango, di cui non restano che mozziconi di mura. Come rovine romane. E non sono che case da trecento dollari l’una: bombardate da B52 da 70mila dollari l’ora.
Probabilmente si sarebbero sciolte anche con un idrante. Anche con una pompa da giardino.
Il ragazzo che mi fa da guida mi indica un albero, a un certo punto, e mi dice: Questa è casa mia, sono cresciuto qui - e non c’è niente, solo l’albero: gli americani hanno bombardato così tanto, e così tante volte, che spesso di Sangin non sono rimaste neppure le macerie. Si chiama Amenullah. Ha 18 anni, e combatte da cinque. In sandali e kalashnikov. Sul suo porto d’armi, alla voce: Professione, c’è scritto: Talebano. Guarda con meraviglia le mie lenti a contatto, e i miei appunti, l’alfabeto latino. Quando gli dico che vengo da una città sul mare, mi dice: Cos’è il mare? La sua specialità sono le imboscate. “Fabbricavamo l’esplosivo con potassio e rottami di ferro. In una padella. Una di quelle per friggere”, dice. Per evitare vittime tra i civili, chiudevano le strade, o scavavano tunnel. Per poi esplodersi vicino all’obiettivo. “Ma in genere, era facile”, dice. “Perché un paio di giorni prima di venire, gli americani inviavano gli uomini della sicurezza per un sopralluogo: e noi, ovviamente, subito dopo minavamo tutto. A quel punto, l’unica sicurezza era che sarebbero morti”.
Mi guarda. “Vincere è questione di intelligenza”, dice. “Non di forza”.
Non è mai stato neppure a Kabul.
Ha visto solo Sangin, nella sua vita.
Di cui conosce tutto. E tutti.
Tutti i danni collaterali. Uno a uno.
In realtà, più che di danni collaterali, si è trattato di danni intenzionali. Alcuni si sono ritrovati nel fuoco incrociato degli scontri tra americani e talebani. O in aree dichiarate aree militari. Ma altri, si sono ritrovati semplicemente dove stavano. Ma perché hanno bombardato proprio qui?, chiedo a un uomo che sta nel niente, a bersi un tè su una pietra decorata: unica prova che c’era davvero una casa, qui. C’era davvero vita. “Domandalo agli americani”, dice. “Sembrava non volessero afghani intorno. Non solo talebani. Avevano paura di tutti. Un giorno sono venuti a dirci di andarcene, e hanno demolito tutto. E siamo rimasti in mezzo a una strada”, dice, tirandosi su una manica, e scoprendo un gomito al contrario: le ossa storte per una frattura non curata. Nessuno è illeso, qui. I pochi muri non crollati sono traforati di proiettili, e così i corpi. Sono tutti una cicatrice, una stampella, un dito che manca. Un’orbita vuota. Un bambino sembra essere stato segato in due, e ricucito con ago e filo. “Se avevi qualsiasi cosa, con te, una pala, una zappa, un cacciavite, pensavano fosse un’arma. E sparavano. E se non avevi niente, sparavano comunque”, dice suo padre. “Perché pensavano che l’arma fossi tu: che fossi pronto a esplodere”.
“Ti dicevano: stateci lontano. Ma sono loro che ci stavano vicino”.
Molti, qui, gli Stati Uniti non hanno idea di dove siano.
Due bambine mi fissano senza espressione. Frastornate. Si tengono per mano, nel punto in cui la madre è stata abbattuta da un marine perché era salita un momento sul tetto a riparare una stuoia, in una casa di stracci, come tutte le altre, qui, una casa senza acqua, senza elettricità, senza cibo: solo un po’ di pane raffermo. Chiedo a un uomo cosa sogna per i suoi figli, e mi dice solo: “Che non siano uccisi”.
Qualsiasi storia tu voglia raccontare: con quel cinismo tipico di noi reporter occidentali - trovi tutto, a Sangin. Quelli colpiti per sbaglio, scambiati per talebani, o per americani, quelli che non hanno mai avuto un risarcimento, quelli bombardati due volte, tre volte, quattro volte, quelli finiti a Guantanamo, o sul fondo del Mediterraneo, quelli che in famiglia sono morti tutti. O i cui corpi non sono mai stati recuperati. Cerco una famiglia di cui sia sopravvissuto solo un bambino, dico, un bambino solo, poi diventato un talebano: e il talebano con cui sto parlando, e che mi sta introducendo a una famiglia di cui è sopravvissuto solo il padre, mi dice: Io. O preferisco forse un bambino rimasto poi handicappato a vita?
Si chiama Haji Agha Ahmad, e ha 21 anni, o forse 22. Non sa quando è nato. Aveva 7 anni, quando è rimasto orfano: ed è stato cresciuto dai talebani. Oggi è al comando di 60 uomini. “Ho perso tutto in una notte. E nessuno, né gli americani, né il Governo, è mai neppure venuto a chiedermi come stessi. Come pensassi di cavarmela, da solo, a 7 anni”, dice. E oggi, dico, agli americani, cosa diresti? A tutti quelli che non riconoscono i talebani? “Niente”, dice. “Ma proprio niente. Non ho tempo. Ho un Paese da ricostruire. Una vita da ricominciare”. Anzi, dice. Da cominciare.
Piuttosto, dice, chiedi a te stessa, cosa hai da dirmi. Avete attaccato l’Afghanistan per difendervi. Ma per difendervi da cosa?, dice. Da un bambino di 7 anni?
In effetti, la guerra qui è iniziata il 7 ottobre 2001. In reazione all’Undici Settembre. Anche se nell’Undici Settembre, i talebani non hanno avuto il minimo ruolo. E né sono mai stati parte di al-Qaeda. Sono un movimento locale. Afghano. Non arabo. Osama Bin Laden era in Afghanistan, sì, ma solo perché era stato espulso dal Sudan. E alla fine, è stato ucciso in Pakistan: per un attentato opera di cittadini dell’Arabia Saudita. Due Paesi che sono tra i più stretti alleati degli Stati Uniti. “Ma davvero pensavate di vincere? Combattendo il nemico sbagliato nel Paese sbagliato? E ora, davvero non capite come mai sia finita così?”, dice.
“In vent’anni di guerra, l’unica cosa che avete ottenuto è lo Stato Islamico”. Agli Stati Uniti, l’Afghanistan è costato 2,3 trilioni di dollari. I talebani non sono trattati con rispetto, qui, ma con affetto. Sono trattati come eroi. Sono così integrati, che non hanno una divisa. Né un distintivo. In teoria, si riconoscono dal kalashnikov. Ma tutti hanno un kalashnikov, in Afghanistan. Tutti sono armati. E quindi, chi è un talebano, qui, e chi no? Qui che tutti si descrivono innocenti, colpiti dagli americani senza motivo: ma tutti hanno rapporti con i talebani - chi è davvero un civile, e chi invece un complice e un fiancheggiatore?
O chi magari, semplicemente, un criminale?
Gli Stati Uniti sono ancora in cerca di risposta. Con l’ambasciata a Kabul chiusa da tempo, non avevano informazioni sull’Afghanistan. Non avevano idea di come individuare il nemico. “I have no clue who the bad guys are” (non ho idea di chi siano i cattivi), disse Donald Rumsfeld nel 2003. Era il Segretario alla Difesa, all’epoca. Era quello che avrebbe dovuto indicare gli obiettivi. Il risultato, è che nell’area intorno al lago di Sangin non c’è più nessuno. Sono stati uccisi tutti. Di qua dal lago, abitavano quattro famiglie. Nel giro di tre anni, hanno avuto 50 morti. Per la metà, bambini. Una delle famiglie è stata completamente cancellata. Delle altre tre, è rimasto un solo sopravvissuto. Ed erano tutti contadini. Contadini e basta. “E infatti, non abbiamo mai avuto un centesimo. Né dagli americani, né dal Governo. E né dai talebani”, mi dice Abdul Ghajoor, uno dei tre. Sono così isolati, qui, e così abituati a non contare che su se stessi, che è necessaria una doppia traduzione: dal pashtun di Sangin al pashtun di Kabul, e dal pashtun di Kabul all’inglese. “E non solo hanno bombardato tutto. Hanno minato tutto perché non tornassimo più”, mi dice, adagiando su un gradino suo figlio. Ha 15 anni. Non l’hanno citato tra i sopravvissuti perché in realtà, è sopravvissuto a metà: con una lesione al midollo, e una lesione cerebrale, sembra una marionetta con i fili spezzati, lo sguardo perso. Non è mai stato visitato da un medico.
“Siete i primi stranieri con cui parliamo”, dice. “Anzi”, dice. “I primi estranei”.
Cinquanta morti. E non è mai venuto nessuno. A Kabul, il ritorno dei talebani è il ritorno della paura. A Sangin, della pace. “Non abbiamo niente, qui. Siamo poveri da sempre”, mi dice Sher Mohammed, un altro dei tre, tirandomi via da una mina che affiora dal terreno. “Avessero costruito un ospedale, una strada, una cosa qualsiasi, gli americani sarebbero stati i benvenuti. Invece ci hanno tolto anche quel poco che avevamo”, dice.
Nel 2001, era alla fame un afghano su tre. Ora, uno su due.
Dai talebani, non vogliono la Sharia, perché la Sharia, qui, c’è già. A Sangin, come in tutto l’Helmand, le donne non girano in burqa: non girano proprio. Stanno in casa. Sono aree così conservatrici che nelle auto, il retrovisore interno è coperto: perché l’uomo alla guida non sbirci le donne alle sue spalle. “Dal nuovo Governo, mi aspetto sicurezza. Ma soprattutto, una casa e del cibo”, mi dice Zakira Haq, che ha 51 anni che sembrano settanta, e vive in una tenda di pezze di iuta. “Ho passato tutta la notte a spostarmi da un punto all’altro, perché pioveva, e gocciolava. E per oggi, ho solo del tè”, dice, lasciandomi entrare, e dicendomi: Ma cosa altro posso dirti? Non ti basta quello che vedi? Dei talebani dice solo: “Meno male sono tornati”. Ma non ti dispiace che tua figlia, però, ora non studi più, chiedo? Che le scuole siano state chiuse? Mi guarda. A Sangin la scuola non c’è. C’è solo una madrasa dei talebani. Non c’è niente, qui. Una scuola, un ospedale. L’acqua. L’elettricità. Il telefono. Una strada asfaltata. Un distributore di benzina. Niente.
Per la ricostruzione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno speso 143 miliardi di dollari. Più del Piano Marshall. Ma tra i progetti del Pentagono, si trovano cose come nove capre italiane da cachemire per il rilancio del tessile: costate 6 milioni di dollari. Non si sa dove siano finite.
Nei libri contabili, gli unici numeri certi sono le percentuali pagate in tangenti. Il 18 per cento ai talebani. E il 15 per cento ai funzionari del Governo.
Il problema è che gli Stati Uniti non hanno mai avuto un piano per l’Afghanistan. Nel 2001, hanno conquistato Kabul in meno di sei settimane. Con 20 caduti. Uno in più di Granada. Erano convinti di fermarsi così poco che a Bagram, che poi è diventata una delle principali basi americane d’oltremare, con 30 mila militari e una concessionaria Harley Davidson, non avevano installato neppure una doccia.
Il bucato veniva inviato in elicottero alla lavanderia più vicina. In Uzbekistan.
Ma né ora i talebani sembrano avere idee chiare. Diversamente da altri movimenti islamisti, non hanno mai creato uno Stato ombra. Non hanno mai avuto un’ala militare e un’ala civile. Non sono come i Fratelli Musulmani. Come Hamas. Come Hezbollah. Sono dei combattenti e basta. Un uomo si prepara alla semina. Che pianti?, dico. “Oppio”. Dice: Non ho alternativa. L’Afghanistan produce l’80% dell’oppio mondiale.
Un ragazzo in motorino, intanto, si ferma a parlare con Amenullah. La nostra guida. Ha tre taniche gialle con un tappo rosso, legate insieme da un cavo bianco: che in realtà è la miccia. Sono tre bombe. Erano per gli americani: è l’esperto di esplosivo dei talebani, e sta minando tutto per i jihadisti dell’Isis. Per ora, la priorità è questa.
Ed è il sogno di ogni talebano: morire in un attacco suicida contro l’Isis. “Ma c’è troppa richiesta”, dice Amenullah. “Scelgono solo i raccomandati”. Sta in lista di attesa.
E come tutti, prima ha chiesto il permesso a sua madre. Il permesso?, dico. “Non voglio che nessuno soffra per le mie scelte”. ◘
di Valter Verini