Intervista a ANTONIETTA POTENTE, teologa domenicana.
Antonietta Potente, teologa domenicana che ha vissuto molto tempo in America latina con la popolazione Aymara, ha scritto diversi libri di rilievo. Attualmente si dedica alle questioni del femminile all’interno della teologia. Le poniamo alcune domande sul significato del Sinodo per la Chiesa cattolica.
Il Sinodo offre una grande occasione di trasformazione della Chiesa di fronte alla situazione contemporanea. Si tratta dunque di recuperare lo spirito evangelico?
«Sì. Credo che nella proposta del Sinodo questa sia la parte più importante, però mi domando se siamo pronti. Prima di compiere un passo di questo tipo dobbiamo fare una riflessione su di noi, sulla Chiesa. Mi sembra molto coraggioso avviare un Sinodo, ma non so se sono consapevoli dello stato delle comunità, dei parroci, di alcuni vescovi. L’intenzione di camminare insieme alla società è cosa buona, ma come possiamo farla se non affrontiamo all’interno della Chiesa alcuni problemi di relazione? Lo reputo interessante, ma astratto. Ci sono delle realtà di base che questo percorso lo possono fare e lo stanno già facendo, ma poche volte vengono chiamate in causa dalla Chiesa ufficiale».
Papa Francesco parla spesso di globalizzazione dell’indifferenza perché le persone cadono nell’individualismo e nella chiusura. Anche la Chiesa soffre della stessa malattia? Quali sarebbero i rimedi?
«Da alcuni documenti e messaggi del Sinodo ho compreso che il Papa ha una preoccupazione per l’intellettualismo, il quale può sfociare in un tipo di indifferenza. Anche nell’ambito della teologia qualcuno può viaggiare un po’ per conto suo. Non c’è un movimento verso l’esterno, manca l’ascolto e quindi anche il messaggio non diventa incisivo in una Chiesa che si trova all’interno di una società molto individualista. Credo che anche in Italia si corra questo rischio dello scivolamento nell’indifferenza. A causa della pandemia le nostre comunità hanno sofferto, sono state pervase dalla paura. Ci sono state meno riunioni, meno incontri e questo ha determinato un allontanamento delle persone. La società, soprattutto quella non credente, corre un rischio maggiore di cadere in questa deriva. Il rimedio consiste nel fare una lettura del Vangelo più contestualizzata alla vita delle persone. Molte comunità non fanno questo lavoro di sostegno.
In America latina ci inducevano a fare questa lettura più incarnata del Vangelo, il Papa forse ha appreso là questa modalità. Dobbiamo aiutarci a rileggerlo partendo dalla nostra vita, con molta umiltà, con meno arroganza. Anche recuperando il senso del Mistero perché noi diamo risposte a tutto, forse perché siamo occidentali e abbiamo tanti strumenti di analisi e tendiamo a non guardare più le realtà di violenza e sofferenza che non riusciamo a spiegare. Come dice Isaia, dovremmo invece imparare a guardare anche questa “bellezza trafitta”».
Il pericolo più vero è che il Sinodo si concentri quasi esclusivamente sulle questioni istituzionali e non affronti l’esperienza spirituale che è il nocciolo della fede. Ci vorrebbe una spinta interiore più forte?
«La Chiesa cattolica è altalenante, dopo tanti secoli non ha ancora superato il dualismo. Lo Spirito arriva sempre dopo, c’è come un blocco dovuto a una certa tradizione cattolica. C’è il rischio di portare avanti degli impegni, ma staccandoli dall’esperienza essenziale. Ho letto alcuni documenti in cui è scritto che chi vuole comunicare con i non credenti può farlo solo attraverso lo Spirito. Nella preparazione del Sinodo ci sono discorsi universali: l’umanità, i fratelli, i non credenti. Ma chi sono? Cosa significa? Noi parliamo così perché abbiamo l’idea di non credente, perché abbiamo la nostra idea dei giovani. In questi documenti si parla pochissimo di donne. Nella comunità dei credenti c’è sempre questo chiodo del femminile, che dimostra la mancanza dello Spirito».
La situazione contemporanea ci spinge ad affrontare di petto alcune sfide: la crisi climatica, l’immigrazione, la povertà, il dialogo interculturale. Il Sinodo può spingerci a incamminarci in questa direzione?
«C’è un impegno a creare un legame tra la vita di fede, la comunità credente e l’aspetto più politico e sociale, diventando più eloquenti nella comunità, ma credo che prima si debba fare una revisione interna molto attenta. Abbiamo tutti i mezzi per collaborare a una ricerca di vita più vera, per cambiare mentalità. Oltre al Vangelo c’è tutta la tradizione della comunità credente che ha fatto nascere il connubio tra la Chiesa e il potere temporale. A parte questi oscuri momenti della Storia abbiamo tutta una esperienza che ci potrebbe aiutare. All’interno della Chiesa ci sono troppe discussioni aperte che non vengono mai toccate e affrontate, devono cadere tanti pregiudizi per poter collaborare nella società. C’è molta paura quando si fanno delle esperienze vere nel sociale, in America latina questa è stata l’esperienza più significativa ma anche la più sofferta. C’è il nodo della partecipazione. Fino a che punto arrivare? Nel Sinodo si parla molto di narrativa, ma essa si realizza molto nel momento dell’ascolto, nella narrazione della vita che ci porta a leggere certe problematiche».
Sulla donna cosa potrebbe dire?
«Noi siamo sempre interpellate ma mai ascoltate. Non c’è un ascolto della differenza delle donne, di un modo diverso di fare teologia e di stare nella Chiesa, di un modo diverso di leggere le Scritture. Quello del femminile è un grande nodo, soprattutto nella sua differenza, che ricalca quella delle culture. Ma una lettura differente rappresenta davvero una nuova possibilità. Noi donne fortunatamente parliamo molto fra noi, anche negli ambiti non ecclesiali e portiamo avanti tante cose, però è triste sentirci convocate ma poco ascoltate. Il femminile è spiritualità e per questo la Chiesa è carente di spirito».
Lei pensa che la Chiesa possa essere uno spazio aperto a tutte le appartenenze, compresi gli emarginati e gli esclusi?
«Se leggiamo il Vangelo certamente la risposta è affermativa. La Chiesa potrebbe esserlo, anche se non lo è mai stata. Dovrebbe essere un’appartenenza molto allargata, come si impara dai Vangeli. L’unica vera appartenenza è alla vita, ma l’istituzionalizzazione la rende meno possibile, comporta delle restrizioni. Ed è proprio sull’istituzione che bisogna lavorare. L’istituzione ecclesiale, così come è oggi, non è sinodale». ◘
SERVIZIO DOSSIER a cura di Achille Rossi