Draghi forever? «Bravi ministri, un Governo bellissimo», parola sua. E ne ha ben donde. Infatti, se si pensa che i ministri sono per definizione i servitori dello Stato, si direbbe che Luigi Draghi XIV li consideri suoi servitori. Irritato dalla bocciatura del decreto Milleproroghe, il premier è sbottato: «Così non va»; «questo Governo è stato creato [corsivo mio] dal Presidente Mattarella, ed è qui per fare cose [!] e andare avanti, e il Parlamento per garantirgli i voti». Ecco, nella dragodemocrazia la linea del potere sovrano va dall’alto al basso, da Mattarella a Draghi, da Draghi al Governo, e dal Governo al Parlamento il cui compito notarile è garantire docilmente i voti a Sua Draghità, controfirmando a occhi bendati i suoi sacri, immodificabili decreti-legge.
Si è ormai alla Costituzione Sottosopra, dove le Assemblee rappresentative sono autoreferenziali, scelte con voto censitario da una minoranza di elettori «pariolini» di medio-alto grado sociale? Si è alla «democrazia dei signori», la «democrazia senza demos» (Luciano Canfora, La democrazia dei signori)? Per ora tale è l’andamento prevalente. Troppo pochi i segnali contrari: di là da venire le agorà lettiane, senza pregevoli effetti il giro d’Italia di Conte tra «la gente», in difficoltà e teleguidata la «democrazia referendaria» dei 5S, fallimentare il tentativo di LeU di collegarsi alle classi subalterne. E non parliamo del demagogismo post-missino della Destra melonista, avida di potere.
Eppure, qualche sussulto costituzionale dei partiti al Governo c’è stato: non solo gli altri politici, ma perfino Salvini ha farfugliato di fronte a Sua Altezza Reale sulle legittime funzioni del Parlamento. È stato amore della Costituzione, – mi chiedo, – o mossa maramaldesca per intestarsi qualche vittoria in vista delle elezioni imminenti? Resta che le contraddizioni tra i partiti, chi più chi meno spaventato dall’iceberg delle prossime urne, in disaccordo persino al loro interno, sono in aumento. La domanda è se Draghi il Grande Timoniere riuscirà a frenare le spinte centrifughe: per ora fiducioso «tiene la barra dritta» e «va avanti». Ma per dove e per che cosa?
Dopo un anno di tecno-decisionismo, in cui Sua Maestà ex Bce ha governato con decreti emergenziali, spesso confusionari, silenzioso e con fare ieratico, inavvicinabile perfino dalla «plebe» dei giornalisti, ora sembra voler scendere «da cielo in terra a miracol mostrar». Prima con volto sfingeo interloquiva dalla sala di comando in Palazzo Chigi solo in video-conferenza e solo con i potenti della Terra, ora sembra che inizi a percepire l’esistenza di un’opinione pubblica e di un Parlamento. Perché? Sarà forse perché anche Sir Mario pensa alle prossime elezioni? Sembra infatti che prenda sempre più corpo un fantomatico informale «Partito di Draghi» per «vincere le elezioni». Un partito di e per Draghi for ever, con una «cultura» tecnocratica «di Governo» (Calenda dixit). «Un partito senza partito», trasversale a quasi tutti i partiti della maggioranza, dal Pd ancora in buona parte renzizzato a Forza Italia Viva, dalla Lega di Giorgetti e Zaia, e forse anche di Salvini «figliol prodigo» agli sparuti gruppi «centrini» fino alla truppetta governista di Di Maio. Una nuova «conventio ad escludendum», non più del Pci, ma di 5S e di FdI (che però in realtà si è autoescluso, per evidenti ragioni elettorali, e finora premiato dai sondaggi). Un nuovo Grande Centro, anzi Centro-destra, confindustrial-global-liberista?
Un Governo draghista che durasse anche dopo il 2023, secondo il primo auspicio di Letta neo-segretario Pd, probabilmente seguiterebbe a fare ciò che ha fatto e che fa. Ossia: il Migliore scambierebbe ancora Palazzo Chigi forse non col Palais de Versailles, ma sicuramente con Montecitorio, nell’idea di una Repubblica semipresidenziale dove, alla faccia del popolo sovrano, il capo dell’esecutivo legifera, l’esecutivo, il «Governo bellissimo», approva e il legislativo, ridotto ormai a un lauto poltronificio, ratifica. Così Draghi si consolerebbe di aver perso il Quirinale.
E il programma? Non dissimile da quello già attuato o in atto. Ad esclusione di alcune misure, il cui merito va soprattutto ai 5S di Conte, e mal digerite dagli altri, come il reddito di cittadinanza e il superbonus edilizio, ecco una breve sinossi del draghismo di Governo di ieri, di oggi e di domani:
1) Innanzitutto la decretazione vaccinale, che, con lo spillover sempre in agguato, non si fermerà certo il 31 marzo: rimane saldo il NO di Draghi, e dell’Ue, all’abolizione della proprietà dei brevetti di Big Pharma, strapagati due volte: prima col finanziamento pubblico della ricerca, poi con l’acquisto dei vaccini; e ciò mentre aumenta il contagio in Africa (l’11% di vaccinati) e il rischio di nuove varianti. Intanto, il fatturato di Big Pharma sale alle stelle.
2) Inoltre, un Pnrr tutto sbilanciato verso i profitti imprenditoriali, col pretesto della crescita del Pil, mentre al contrario crescevano e crescono, sotto gli occhi vitrei di Draghi e draghisti «bravi ministri», la delocalizzazione, il degrado ambientale, il lavoro precario, la disoccupazione, la povertà (oltre 2 milioni di famiglie, 6 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta). Cenerentole di Draghi restano anche la Sanità e la Scuola pubblica, miserevolmente finanziate a fronte dell’aumento delle spese militari (+ 5,4%, circa 26 miliardi di euro in più rispetto al 2021). Per non dire della padronale alternanza scuola-lavoro, introdotta da Berlusconi nel 2003, su cui, nonostante le manifestazioni di protesta studentesche, Draghi e il suo «bravo ministro» Bianchi non mettono lingua. ◘
Di Michele Martelli