Cronache d’epoca.
Sicuramente questi canti, chiamiamoli così, scritti in questa pagina avrebbero trovato le porte chiuse a Sanremo e anche all’ “Ugoletta d’oro”, stonata manifestazione canora che qualche decina di anni fa si svolgeva nei mesi estivi a Città di Castello, in Piazza di sopra. Aperte, invece, erano le porte a questi versi fatti in casa a uso e consumo del nostro dialetto, parlato da “Coldipozzo al roscio del Biccio”, in quel di Cerbara. Si cantavano, questi versi, perlopiù accompagnati da un organetto, tanti tanti anni fa, nelle lunghe veglie invernali accanto al fuoco, complice quel vinello che dal primo bicchiere fa “stremolire” e dal terzo cantare. Si cantava nei campi dove si zappava la terra, si mieteva il grano, si vendemmiava l’uva. Si cantava all’amore appena nato e a quello che stava morendo.
Si canta quello che altrimenti sarebbe difficile dire in una prosa, parole pensate che per timidezza, pudore o altro, mai si direbbero senza il canto, che toglie inibizioni, rinfranca, dà coraggio come quel vinello… Sono canti purtroppo persi nella loro interezza, che davano sfogo alle pene d’amore, alle gioie, agli addii. Sono canti di vita vissuta, di quotidianità tramandata da giù nel tempo, di generazione in generazione. Frammenti che solo il canto accompagnato da un organetto è riuscito a non disperdere del tutto, un piccolissimo spiraglio che aiuta a capire come eravamo. Eccolo. La giovane ragazza vuole lasciare la campagna per venire a Castello a fare la serva. Il suo ragazzo non è d’accordo, cosa fa? Si affida al canto. «Me è steto dètto / che tò vù partì / senza licenza mia tò n’partirè / tutte le strède te vo’ fè bandì / tutte le porte te vo’ fè serrè / vo’ fè serrè quelle de Castello / che non posa passè sto viso belo». Lei lo lascia cantare, ma ormai ha deciso, a lui non resta che rivolgersi al sole cantando: «Sole che tramonti verso sera / varca quel pogio, saluta quel fiore / digni che se ricordi del mi amore». Tutto sommato l’ha presa bene. In quest’altro caso è la ragazza che viene "piantata", il suo ragazzo la sera non va più a veglia da lei; questo non le va giù e cerca di riconquistarlo: «Quando venii a veja a chèsa mia / eri del color del sole / adeso che a chèsa mia ‘nvenghi piò / è perso la cera e ’l colore / arvienci a chèsa mia a fè l’amore». Si cantava anche di rabbia. Mettetevi nei panni di questo ragazzo che lei vuole lasciare perché ha un altro. Lui fa di tutto per non lasciarla, ma lei, dura, neanche pensa di tornare con lui. E lui cosa fa? Come quello di prima si era rivolto al sole, lui si rivolge al diavolo che, come si sa, si nasconde nei particolari. «Diavolo de l’inferno / fate frète e confessore de la ragazza mia / dille se ci vole arfè la pèce / se ‘n ci la vole arfè portala via / portala sul profondo de l’inferno / tienla melagiò per l’eterno / facila morì da la passione / come ha fato a me senza ragione».
Piccole minute storie involtate in un canto e un organetto che, quando viene la sera, si trasformano nellala recita di questa antica preghiera… «Vèdo a lèto e rentro giò / Dio ’l sa se ’n me arizzo piò / Signore se ’n me arizzo / tre cose de la Chiesa v’arcomando / la confessione, la comunione e l’oio santo / nel nome del Padre del fiolo e de lu Spirito Santo…Amen». ◘
di Dino Marinelli