DOSSIER: LA TRAGEDIA DEI BALCANI
Ci sono esperienze così profonde che si imprimono nell’anima e non si cancellano più. Il viaggio nell’inferno della Bosnia nell’agosto del 1993 ha rappresentato il tentativo di 2000 giovani di solidarizzare con una Sarajevo assediata, nell’inerzia della politica e di fronte a un’Europa che aveva rivolto lo sguardo altrove. Le scarne righe di un diario permettono ancora di rivivere un dramma sconvolgente perché la memoria non si dissolva nell’oblio.
L’imbarco ad Ancona ha un carattere festoso ed è un’esplosione di vitalità e giovinezza. Nell’ora del tramonto San Ciriaco è avvolta in una luce splendida, anche l’alba sul mare a Spalato è incantevole e fa dimenticare la realtà della guerra. Ci incamminiamo verso il campo, una pineta sulla collina che sovrasta la città e iniziano incontri di gruppo, mentre il grosso della spedizione di MirSada si era accampato a Prozor, a 5 chilometri dalla prima linea. Le notizie però sono preoccupanti e gli organizzatori chiedono ai ragazzi se vogliono proseguire verso Sarajevo o fermarsi a Spalato. Si apre una discussione infinita fino alle 4 del mattino, che mi ricorda le assemblee studentesche del '68. Il nostro gruppo viene a salutarci, mi dispiace lasciare queste persone con le quali ho vissuto appena un giorno, ma che è bastato per creare legami intensi. Approfitto dell’invito di Paolo, incaricato di guidare il convoglio, salgo nella prima macchina accanto a lui. È un punto di osservazione eccezionale.
Il viaggio verso Prozor
Dalle rive dell’Adriatico si sale per pendii scabri verso l’altopiano. Cespugli di alberelli bassi e fitti danno alle colline un verde caratteristico, ma ogni tanto lasciano intravedere le rocce sulle quali crescono. La gente non dà l’impressione di vivere una situazione di guerra. La frontiera croata ci ferma per un’ora, controlla tutti i documenti. Un mitra lasciato quasi distrattamente sopra alcuni cavalli di Frisia ci ricorda che la guerra non è lontana. Paolo mi spiega che un paio di giorni fa qui si sparava.
A due chilometri un minareto bianco fa la guardia alle case del villaggio; alcune sono senza tetto, altre nuove di zecca. Sono i segni del passaggio della guerra e delle faide tra croati e musulmani. I poliziotti croati ci scortano fino al checkpoint sulla strada asfaltata, poi il percorso si inerpica sulle colline boscose della Bosnia. Il tempo minaccia il peggio e comincia a lampeggiare sopra le montagne. A una decina di chilometri da Prozor incontriamo la carovana di Equilibre, il gruppo logistico di MirSada, che sta rientrando. La gente del nostro convoglio saluta e applaude, ma le facce di coloro che risalgono sono scure, come avessero subito una sconfitta. Paolo mi confida che MirSada è finita. L’ultima macchina dell’organizzazione viene derubata da due uomini armati che costringono il conducente a proseguire a piedi.
Dopo alcuni tornanti arriviamo in vista del lago di Prozor e subito sentiamo il cannone. È un rumore che ci accompagnerà per tutta la notte. Nel frattempo la macchina che era andata in avanscoperta a GornjiVakuf si è trovata nel mezzo della battaglia. Il paese era deserto, c’era ancora l’odore acre delle macerie e nelle case i soldati che medicavano le ferite. Appena i sei componenti hanno svoltato al bivio per GornjiVakuf sono stati bersaglio di colpi di mitra e sono rientrati a tutta velocità. Si tratta di un fronte mobile senza alcuna possibilità di trattative e il rischio di essere attaccati da bande di irregolari.
Un gelo scende sull’assemblea, mentre padre Fabrizio fa il suo resoconto. Per don Albino non è possibile arrivare a Sarajevo in queste condizioni.
Un’altra macchina è stata rubata nel campo e questo dà la sensazione di essere in balìa degli Ustascia e di un’autorità che li protegge. Anche una ragazza è stata infastidita da alcuni irregolari che si sono introdotti nell’accampamento. Mi butto sul materassino e dormo tutta la notte, senza sentire i colpi di cannone che sparano dall’isolotto vicino.
Una notte molto fredda. Albeggia sul lago, una scena dolce e carica di poesia, eppure la guerra è a 5 chilometri. Dopo un’assemblea interminabile la carovana decide di fermarsi al checkpoint Onu per vedere se è possibile continuare la marcia verso Sarajevo o di provvedere a una scorta. Al posto di blocco croato Paolo cerca il capoposto che già conosce e gli regala una bandiera della pace. Il soldato ci fa bere un sorso di Marsala facendo girare la bottiglia fra i commilitoni e ci fa cenno di proseguire. Quando la colonna è sfilata, ci saluta con il solito rituale: si passa la bottiglia e si ribeve. Un tratto umano di cordialità al di là delle divise differenti.
Il checkpoint Onu
Il comandante ci fa sapere che possiamo accamparci, mentre i soldati guardano con curiosità questo popolo multicolore. Sono giovanissimi e viaggiano col mitra a tracolla anche per andare in bagno. All’imbrunire arrivano i croati che ritornano dal fronte, cantano e sparano raffiche di mitra. Ci sdraiamo a terra per paura di essere colpiti. A mezzanotte, ospite della Direzione, mi stendo su un sedile dell’automezzo per conciliare il sonno. Fa un freddo terribile e l’umidità è elevatissima.
Le notizie non sono confortanti: la scorta non può essere concessa, non solo per motivi burocratici, ma perché un convoglio come il nostro potrebbe essere attaccato da bande irregolari e non avrebbe la velocità sufficiente per porsi fuori tiro. Data l’intensità dei combattimenti non è possibile concedere i salvacondotti. Il consiglio del comandante Onu è quello di rinunciare a Sarajevo. Altrettanto categorico quello dei dirigenti di MirSada: andare a Mostar per una manifestazione pacifica per richiedere pace e riconciliazione. Arriviamo a Posutzce, un grosso centro al di là del vecchio confine croato e ci accampiamo dietro al prato di una chiesa. La notte è ancora piena del rumore di una festa di matrimonio. I ritmi e le grida hanno una cadenza di tipo turco. Fuori canti e marcette militari. Sono gli Ustascia che circolano a pochi metri di distanza. Non c’è da stare molto tranquilli.
A Mostar
La gente del paese viene a prendere acqua alla fontanella vicino alla chiesa. Ci si accosta una signora che porta ancora i segni del lutto. Ci spiega che le hanno ucciso un nipotino di 7 anni, proprio tra le sue mani. Piange, mentre bacia e abbraccia le ragazze che le stanno accanto. È una scena toccante. Ci mettiamo in marcia alla volta di Mostar, ma le autorità croate ci bloccano a 17 chilometri. Sfiliamo perciò in silenzio come forma di rispetto per coloro che hanno subito e stanno subendo la violenza della guerra. La gente sulle prime resta a guardare, poi chiede le bandiere di MirSada, “pace oggi”. I volontari distribuiscono un volantino in croato dove si dice che veniamo in pace, per essere solidali con la loro sofferenza. Quando la fila torna indietro la gente esce dalle case, offre acqua, bibite e grappoli d’uva. Si è creata una grande sintonia, come se si fossero toccate le corde dei sentimenti più profondi.
Prima di ripartire ho visitato un campo profughi bosniaci vicino a Spalato. Le persone si sentono come ostaggi. «Ogni tanto la polizia preleva gli uomini e non si sa dove li porti. Non vogliamo restare qui e magari andare in Germania, in Inghilterra o ritornare in Bosnia a morire». La guida che ci accompagna mi spiega che la maggior parte delle donne del campo sono state violentate dai serbi insieme alle loro figlie. Una tragedia senza fine. Una crudeltà che serve a far perdere alle vittime persino la dignità. ◘
Testimonianza a cura di Achille Rossi