DOSSIER: LA TRAGEDIA DEI BALCANI
Sono esattamente 30 anni da quando l’Europa entrava sempre più a fondo in uno dei periodi più bui della sua storia con quanto aveva iniziato ad ‘accadere’ (come un evento temuto, ma incredibile, per la sua violenza e durata) in quell'area che, quasi come uno scongiuro o una negazione, si era da subito posta sotto la qualifica di ‘ex’: una realtà ben nota, familiare, ma che non si voleva riconoscere come ‘propria’. La ex-Jugoslavia passava da area ‘altra’, ma soprattutto, in fondo, di vacanze belle e a più basso costo, a zona di guerra: difficile da qualificare: parte di una evoluzione post-Urss? Etnica? Civile?… Di chi contro chi? Perché? E soprattutto in vista di che cosa? E con che coinvolgimenti? E con quali armi e vittime designate?
È importante, e imprescindibile, evocare – con le stesse domande con le quali si vivono i giorni di questa fine di febbraio 2022, imposte da quanto sta ‘accadendo’ in Ucraina – la guerra che dal 1991/2 si sarebbe protratta per più anni, e le cui conseguenze sono ancora una realtà culturale e di civiltà: non avrebbe senso infatti fare memoria di un passato che molta cronaca fa finta non sia mai esistito, anche se era alle nostre frontiere. Sono tanti, oggi, nella cronaca e nei dibattiti, che dicono che la guerra in corso è tanto più grave perché è la prima dopo la seconda guerra mondiale, e ‘rompe’ una pace che durava, grazie alle politiche della UE, da più di 70 anni.
La qualifica di ‘ex’ sopra ricordata coincideva allora con lo stesso tentativo che è oggi in corso: trovare un colpevole che permetta di non sentirsi coinvolti o responsabili: immaginare che la guerra è riconducibile a decisioni ‘razionali’ che non ci tocchino.
Per orientarsi, oggi, al di là delle cronache, sui diritti-valori dei popoli (quelli concreti: fatti di persone, delle loro vite, del loro soffrire e morire, piuttosto che sognare futuro) è fondamentale ricordare che la guerra era stata dichiarata ‘obsoleta’ e ‘proibita’ dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalle Costituzioni democratiche. Riconoscerne l’esistenza significava riconoscere un fallimento per una società come quella europea, che stava assestandosi, soddisfatta, sui diritti permessi-perseguiti dai propri modelli di sviluppo. Era meglio qualificarla come un disordine più o meno grave, ma interno a Paesi che non avevano avuto la fortuna di un’esperienza di democrazia.
La diagnosi formulata dal Tribunale Permanente dei Popoli (nel 1995, appena possibile nella sostanziale reticenza dei Governi, in un quadro politico tragico per le violazioni massicce e incredibili per crudeltà e sistematicità), in due sessioni internazionali, a Berna e a Barcellona, era molto chiara. La ‘guerra’ aveva coinvolto non solo popoli e minoranze di quei territori: era stata provocata-orientata-gestita da una serie di attori e di interessi geopolitici, che si scontravano contro tutte le regole del diritto internazionale. Il ‘crimine’ era la guerra: e come crimine complessivo poteva includere tutti i crimini contro l’umanità e le dignità individuali e collettive. Fino al genocidio, commesso avendo come spettatori (impotenti? conniventi?) i rappresentanti della Comunità internazionale. Trovare le responsabilità ‘legali’ dei singoli o dei gruppi era importante (e le sentenze del Tpp rappresentano in questo senso uno strumento molto completo e ‘didattico’, così come più tardi alcune delle decisioni della Corte Penale Internazionale, che stava allora formandosi). Ma era più fondamentale essere il promemoria che la ri-introduzione della ‘guerra’ come strumento per ‘mettere ordine’ (… era di pochi anni prima la guerra del Golfo: per la democrazia, o per il petrolio?) faceva ri-entrare in un tempo che faceva della pace una variabile dipendente dagli interessi del momento e dei luoghi.
La guerra mondiale frammentata e diffusa di cui avrebbe parlato papa Francesco, armata di bombardieri o di economia o di diseguaglianza poteva riprendere il proprio diritto di cittadinanza: per le ragioni più diverse, dalle Torri Gemelle (non sarebbero passati tanti anni…), alla Siria, alle decine di ‘focolai’ nel mondo: con le stesse regole più o meno feroci o distruttive: avendo la memoria del genocidio specifico delle donne nella Jugoslavia, passando per gli onnipresenti ed inevitabili "soggetti fragili"…
Le storie ufficiali di quanto ‘accade’ nelle guerre rivelano, prima o poi, tanti aspetti che non sono discernibili in tempo reale, anche perché si sa che il mentire è un’arma imprescindibile della guerra. La Storia dei popoli reali vorrebbe essere raccontata da loro, non come vittime, ma come soggetti e creatori di dignità. È l’unico obiettivo di un osservatorio-strumento tanto piccolo come il Tpp. Il titolo di una delle sue Sessioni a Berna diceva, per riassumere le raccomandazioni sul che fare: “Non esiste una via per arrivare alla pace: la pace è l’unica via”.
Ripetere senza stancarsi, e senza illusioni questa utopia, più concreta di qualsiasi invio-uso di armi, è l’unico modo di parlare, ‘al presente-futuro’, di quanto (con attori diversi di nome, ma molto simili a quelli di ‘allora’) accade nel cuore dell’Europa in questi giorni: questa volta l’esportazione della violenza specifica della guerra in altri Paesi non è stata possibile.
E il brevetto per vaccini efficaci contro le tante pandemie che confluiscono nelle guerre, qualsiasi sia il loro nome, non appartiene se non ai popoli che, contro tutti i calcoli pieni di interessi dei poteri, scelgono di essere testimoni, molto attivi, pieni di iniziative, della pace. ◘
di Gianni Tognoni