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Non dimenticare Serbrenica

DOSSIER: LA TRAGEDIA DEI BALCANI
Intervista a Tatjana Ðorđević Simić, giornalista
quella guerra fu un crimine altrapagina marzo 2022 3

Tatjana Ðorđević Simić è una giornalista di origine serba residente in Italia, collabora con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali; attualmente scrive per "Al Jazeera Balkans" e per la versione in serbo della BBC. Le rivolgiamo alcune domande sulle guerre balcaniche di trenta anni fa e, in particolare, sulla strage di Srebrenica.

L’11 luglio 1995 le truppe del generale Ratko Mladić entrarono nella cittadina di Srebrenica e uccisero 8372 uomini e ragazzi musulmani. Si consumò così la tragedia più grave della guerra serbo-bosniaca iniziata nel 1992. Può spiegare cosa accadde in quei giorni a Srebrenica?

«Quello che è successo a Srebrenica, che ha preceduto il genocidio e gli ha fatto seguito, è stato sancito con precisione dalle sentenze del Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia. Quindi eviterei di commentare i fatti accaduti l’11 luglio 1995. Un compito difficile che riguarda una parte della storia molto triste dei popoli dei Balcani».

Come è potuto accadere un orrore di tale portata? Quali sono state le cause?

«Tutto quello che è accaduto a Srebrenica è avvenuto con “l’intenzione”, con ruoli molto precisi e chiaramente definiti di ciascun individuo nella catena del crimine. Tutte quelle persone sono state condannate? Non ancora. Tuttavia, la maggior parte di coloro che hanno compiuto il genocidio sapeva ciò che sarebbe accaduto e non ha fatto nulla per prevenirlo o impedirlo ed è stata  ritenuta responsabile davanti al Tribunale internazionale. Alcuni di loro sono stati processati e altri processi sono ancora in corso in Bosnia ed Erzegovina, ma anche in Serbia. È comprensibile l’insoddisfazione delle famiglie delle 8372 vittime, tante quante finora sono state registrate nel genocidio di Srebrenica, però non va dimenticato che questo non è il numero definitivo.

Perché sia potuto accadere un orrore di tali dimensioni è una domanda complessa: le cause in parte sono riconducibili a fatti contemporanei e in parte affondano le radici nei secoli passati».

Sono stati documentati delitti atroci, fosse comuni, stupri di donne, l’esistenza di campi di concentramento, secondo un programma di pulizia etnica organizzato dalle milizie di Mladić, eppure le Cancellerie europee per molto tempo fecero finta di non vedere ciò che in realtà sapevano: perché?

«L’Unione europea non dispone di alcun meccanismo, oltre alle sanzioni economiche, che possa fermare le guerre. Nemmeno oggi, come nel '91 quando iniziò la guerra in Croazia o nel '92 quando iniziò la guerra in Bosnia ed Erzegovina, e poi nel '95, quando tutto doveva finire e così non è stato perché nel 1999 in Kosovo è scoppiata una nuova crisi. La stessa incapacità si manifesta anche oggi sulla crisi ucraina.

L’Unione europea è un meccanismo complesso, lento, burocratizzato con molti interessi in conflitto, piuttosto inutile e impotente in situazioni come i conflitti armati. Se nel '95 e nel '99 non ci fossero stati attacchi Nato, in realtà si trattava degli attacchi americani, rispettivamente la guerra in Bosnia ed Erzegovina e quella in Kosovo avrebbe richiesto molto più tempo per essere portata a compimento.

Dubito che l’Europa avrebbe potuto immaginare un crimine così crudele e orribile come il genocidio di Srebrenica, ma dopo quello che era successo con l’assedio di Vukovar in Croazia o a Sarajevo, così come altri crimini commessi da tutte le parti in guerra nell’ex Jugoslavia, forse avrebbe potuto prevedere il grande male che si stava preparando.

È ovvio che la violenza avrebbe potuto essere fermata solo da altre violenze, cioè il conflitto in Jugoslavia si è concluso con le bombe della Nato piuttosto che con le attività diplomatiche».

Si discute ancora oggi sul ruolo che ebbero i caschi blu dell’Onu i quali non mossero un dito per fermare Ratko Mladić e per mettere al riparo la popolazione bosniaca dalla furia genocida. Cosa pensa di questo fatto?

«Per quanto incompetente fosse l’Unione europea, le Nazioni unite lo erano ancora più. Sebbene siano state capaci di inviare forze di interposizione tra fazioni in lotta in conflitti precedenti, abbiamo assistito in prima persona alla loro assoluta incapacità di intervento nelle guerre nell’ex Jugoslavia. I soldati non avevano risorse sufficienti, a dire il vero, soprattutto non avevano un mandato, né erano addestrati e attrezzati per il conflitto diretto e l’uso della forza per prevenire i conflitti o i crimini. In poche parole, erano impotenti. I caschi blu olandesi di fronte al pericolo imminente per la vita di coloro che proteggevano, scelsero di ritirarsi. Il battaglione olandese chiese il supporto aereo e non l’ha mai ricevuto. L’ordine era che potessero usare le armi solo in caso di autodifesa. Molti di essi hanno testimoniato davanti al Tribunale dell’Aja sulla loro impossibilità di prevenire la tragedia».

Lei ha affermato che sottovalutare Srebrenica è un crimine. Può spiegare questa affermazione?

«È chiaro che nessun verdetto può riportare in vita i morti, ma non è comprensibile ignorare, respingere, negare un crimine di tale portata. Finché il genocidio viene ignorato, respinto o negato non ci sarà il confronto con le azioni disonorevoli di individui e gruppi che sono stati protagonisti di quell’evento».

Tensioni molto forti sono riprese tra serbi e bosniaci nel nuovo Stato uscito dagli accordi di Dayton: cosa sta succedendo?

«L’ex alto rappresentante della Comunità internazionale in Bosnia, Valentin Inzko, lo scorso luglio del 2021 prima di lasciare il suo mandato, ha stabilito che la negazione del genocidio di Srebrenica sarà vietata in base al diritto penale bosniaco. Gli emendamenti alla legge voluti da Inzko prevedono anche il carcere per un periodo fino a cinque anni per coloro che esaltano i criminali di guerra serbo-bosniaci.

A questa decisione, l’ex presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, oggi membro serbo della Presidenza tripartita bosniaca, ha immediatamente reagito respingendo le modifiche imposte dall’Alto rappresentante e confermando la sua posizione sul massacro, asserendo che “A Srebrenica non è avvenuto un genocidio”, aprendo così una crisi politica e persino annunciando l’indipendenza della Republika Srpska. Praticamente tutto è cominciato da lì, ma certamente gli accordi di Dayton non hanno reso possibile la pacificazione tra le parti. Dodik in questo momento usa le sue ultime forze per rimanere al potere, manipolando l’opinione pubblica su questioni dolorose come il genocidio di Srebrenica».

Può descrivere come era la vita in Bosnia tra serbi, bosniaci e croati prima di Srebrenica? E cosa è cambiato dopo?

«I serbi di solito ignorano, rifiutano e negano il genocidio di Srebrenica. Spesso accampano scuse e dicono che ‘hanno iniziato prima loro’, ma per lo più di tutto questo non si parla, come se non fosse accaduto. I bosniaci musulmani invitano al confronto, chiedono l’ammissione delle responsabilità e il riconoscimento da parte dei serbi di quel crimine. Ma è molto difficile che lo ottengano e devono continuare a convivere con quel trauma. La vita a Srebrenica dopo Srebrenica non è molto felice. Nelle altre parti della Bosnia la vita tra tre etnie continua. Forse non proprio come prima: ogni parte ha le sue ragioni e le sue tragedie. In un conflitto esistono vittime e carnefici. La guerra in ex Jugoslavia non è stata voluta dalle diverse componenti etniche di quel Paese che non esiste più. Ma il prezzo più caro lo hanno pagato i cittadini a qualunque etnia essi appartengano. Bisogna insegnare alle nuove generazioni a non ripetere mai più gli stessi errori, una cosa purtroppo che non si fa abbastanza». ◘

di Antonio Guerrini


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