Martedì, 23 Aprile 2024

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Il futuro della scuola.

SCUOLA. Intervista al professor Alessandro Artini, Presidente dell'Anp toscana 2530.

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La Scuola italiana – per non parlare dell’Università – vive una stagione delicata della sua storia. Nel triennio dominato dalla pandemia ha registrato gravi carenze: le lezioni sono state in gran parte sospese; l’attivazione della Didattica a distanza ha prodotto gravi conseguenze sia nella partecipazione degli allievi sia nell’esplosione dell’abbandono scolastico da parte soprattutto degli studenti più fragili, per ragioni personali e/o sociali. Docenti ed esperti di problemi scolastici hanno denunciato l’abbassamento qualitativo degli studi e hanno lanciato un grido di allarme per salvare il sistema scolastico e la formazione delle giovani generazioni.

Ad Alessandro Artini, presidente dell’Associazione nazionale Presidi della Toscana, chiediamo innanzitutto di fare il punto sugli effetti provocati dalla pandemia da Covid nella vita degli istituti scolastici e nell’organizzazione dell’insegnamento negli ultimi due anni.

«Gli effetti della pandemia sono stati generalmente negativi, in particolare per coloro che già avevano difficoltà, mentre, per chi disponeva di una struttura di personalità maggiormente solida, sono stati meno dannosi. Come è noto, i reparti degli ospedali dedicati al malessere psichiatrico hanno registrato un incremento nella presenza di adolescenti. Faccio presente che il suicidio, per le fasce di età adolescenziali, è la seconda causa di morte (dopo quella per incidenti stradali). Crisi di panico, forme depressive, disturbi alimentari sono più diffusi che in passato».

Il Ministero dell’Istruzione ha promosso la Dad, ma non ha previsto le conseguenze che si sarebbero registrate nella formazione dei ragazzi e nel tasso di frequenza, soprattutto negli istituti di istruzione superiore. Nelle scuole della Regione toscana quali conseguenze sono state registrate?

«Non è esatto dire che il Ministero ha promosso la Dad. In realtà esso ha preso atto della reazione positiva di molte scuole, le quali si sono rese conto che quello era l’unico modo per non interrompere la relazione educativa con gli alunni e proseguire le attività. Solo dopo aver preso atto di quella reazione spontanea, dovuta alla coscienziosità di una parte dei docenti e dei dirigenti, che intendevano rendere un servizio alla società, alla stregua di quello che si faceva negli ospedali, il Ministero è intervenuto per la diffusione di quella pratica didattica. Fra l’altro pronunciando tardivamente parole chiarificatrici circa la netta opposizione dei sindacati tradizionali della scuola, che suggerivano di non adottare la Dad in quanto non prevista contrattualmente. Nella mia scuola, l’Itis “Galilei” di Arezzo, dopo una settimana circa dagli inizi del lockdown, la Dad funzionava a pieno regime, avendo mantenuto il tradizionale orario, ma avendo ridotto la durata delle unità di lezione e inserito degli ampi intervalli tra le discipline che si succedevano nell’arco della mattinata».

La denuncia del disastro formativo operata da alcuni osservatori non ha mancato di produrre un acceso confronto sul futuro della scuola italiana. Lei cosa pensa in merito? Negli ultimi anni, si è registrato veramente qualcosa di preoccupante a conclusione del percorso scolastico?

«I dati recenti dell’Invalsi denunciano un peggioramento degli apprendimenti, ma i trend negativi non sono nuovi e non sono certo dovuti alla pandemia: da decenni si parla dell’elevato tasso di abbandoni, di un eccesso di voti negativi e di ripetenze, di insoddisfazione degli alunni per la vita scolastica e di noia durante le lezioni. E tralascio di parlare delle indagini PISA (Programme for International Student Assessment), che ormai denunciano da anni, tra i Paesi Ocse, i risultati inferiori alla media internazionale dei nostri alunni quindicenni. Del resto, le didattiche innovative, in Italia, hanno trovato uno spazio limitato e la stragrande maggioranza degli insegnanti era completamente impreparata alla Dad. I risultati non pienamente soddisfacenti di quest’ultima sono dovuti anche a questo. Ovviamente vi sono anche delle scuole ben funzionanti e dei docenti ammirevoli per professionalità».

Acceso è il dibattito sugli interventi necessari (ed urgenti). Dal suo punto di osservazione quali interventi sono necessari? Quali riforme urgenti?

«Qualsiasi prospettiva di riforma della scuola italiana non può esimersi dal trattare le questioni organizzative e gestionali della scuola. Paradossalmente, il discorso educativo, che rappresenta la missione essenziale della scuola, non può trovare oggi spazio adeguato, né fondamenta solide, se le condizioni normative e istituzionali non vengono profondamente riformate.

In questo momento, le criticità della scuola italiana si manifestano negli aspetti strutturali e, a causa di ciò, il discorso di natura pedagogica ed educativa, in senso lato, non riesce ad aprirsi un varco presso l’opinione pubblica. Il “silenzio” dei pedagogisti, in questa fase storica, ne è testimonianza.

La scuola, esposta alle ondate pandemiche, è apparsa come una nave priva di un solido scafo. Solo una radicale ristrutturazione potrebbe consentirle la navigazione verso le mete desiderate, che senz’altro riguardano l’istruzione e l’educazione.

Ciò premesso, evidenzio solamente come l’autonomia scolastica sia sottosviluppata dal punto di vista economico (i finanziamenti sono in gran parte assegnati su fondi vincolati, rispetto ai quali le scuole hanno scarsi poteri decisionali), gestionale (la vita delle scuole è ancora oggi determinata da circolari o comunque da atti normativi di natura centralistica). Le scuole, inoltre, non possono scegliere il personale di cui necessitano (né quello Ata, né i docenti), né possono perseguire una propria organizzazione (non è possibile decidere il modello cui ispirarsi, né il personale cui affidare i compiti). Direi che occorra partire da qui».

Molti studiosi sostengono che la necessaria e auspicata riforma dei percorsi formativi deve interessare tutti i gradi e gli indirizzi di studio. E, soprattutto, deve comprendere la cultura umanistica, il sapere scientifico, i temi e problemi collegati alla rivoluzione tecnologica. Ma, è realizzabile una proposta così ampia e affascinante?

«Una tale riforma è ambiziosa ma riposa sulla natura delle cose. La formazione dei giovani non può prescindere dai tre fondamenti umanistico, scientifico e tecnologico, che peraltro affondano le loro radici nella storia culturale del nostro Paese. Penso che l’impostazione adottata nei suoi lavori da Edgar Morin sia quella giusta: un’integrazione dei saperi esistenti, senza concedere la primazia ad alcuno dei tre fondamenti a scapito degli altri due».

L’ultima questione, ma non la meno urgente, riguarda la formazione e la selezione degli insegnanti. L’Università italiana è pronta a realizzare la necessaria rivoluzione dei percorsi di laurea? E il Ministero è attrezzato per affrontare e risolvere il problema della formazione e della selezione dei docenti?

«La questione è complessa e, poiché non è possibile articolarla in questa sede, indico solamente quelli che, come ho già suggerito in alcuni lavori, sono i punti essenziali.

a) Occorre che i futuri docenti abbiano una formazione accademica, finalizzata ad avere conoscenze disciplinari elevate, atte all’esercizio della futura professione.

b) È necessario conoscere la didattica e le sue tecniche e, per farlo, possedere almeno elementi basilari di pedagogia, psicologia infantile e dell’età adolescenziale, indipendentemente dal tipo di materia che si desidera insegnare.

c) Soprattutto, occorre conoscere le tecniche didattiche innovative, perché in Italia la tradizionale «lezione frontale» è tutt’oggi la prassi dominante.

d) Al termine dell’università, dobbiamo prevedere una selezione tra coloro che si indirizzano all’insegnamento, in maniera tale che il numero dei candidati sia coerente con quello dei posti a disposizione.

e) A lato delle conoscenze, sia di quelle di natura disciplinare che di quelle didattiche e psico-pedagogiche, occorre un adeguato periodo di tirocinio, che consenta ai candidati al ruolo di insegnante di apprendere dall’esperienza viva di insegnanti senior.

f) I concorsi per l’immissione in ruolo dovranno essere organizzati dalle scuole stesse, senza puntare sull’organizzazione di mega-concorsi statali, che risultano inattuabili. Sarà competenza delle scuole provvedere a un’apposita organizzazione.

g) Occorre immaginare le tappe di una futura carriera docente, che distingua fra coloro che si dedicano all’insegnamento e quelli che contribuiscono alla gestione delle scuole. ◘

di Matteo Martelli


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