Umbria. Tra salario e professionalità: la questione della produzione e del lavoro di qualità.
Come spesso accade in questo strano Paese, con l’avvicinarsi dell’estate tornano in auge abituali tormentoni legati alla buona stagione: le ferie, le spiagge, le concessioni ecc. Ambiti economici legati al comparto del turismo e della ristorazione, da sempre considerati la soluzione del problema occupazionale. Con troppo facile entusiasmo si arriva a pensare che turismo e cultura siano beni da sfruttare, e tutte le istituzioni locali cercano fortuna nell’accaparrarsi risorse straordinarie oggi disponibili attraverso le politiche europee, fondi strutturali e Next generation EU. La visione di un turismo molto commerciale e predatore, che tenta di far affluire masse consistenti nei luoghi d’arte e la privatizzazione spinta dell’organizzazione di eventi e della gestione dei beni e dei siti d’interesse artistico culturale, crea facili aspettative di sviluppo spesso legate alla stagionalità e alla bella stagione.
La polemica sollevata da ultimo da Alessandro Borghese e Flavio Briatore, due volti notissimi di imprenditori e divulgatori di questo settore e, in particolare, l’attenzione che loro hanno inteso dedicare in forma di denuncia alla scarsa disponibilità e professionalità del personale che servirebbe al settore, è rivolta soprattutto ai giovani. La questione è posta in questi termini: “noi offriamo lavoro, ma i giovani se ne fregano e preferiscono poltrire sul divano o usufruire del reddito di cittadinanza”. Le questioni poste, seppur in maniera provocatoria, non possono essere ricondotte alla sola responsabilità di giovani, famiglie e istituzioni, senza contare che i giovani sono molto cambiati rispetto ai modelli che si vorrebbero loro imporre, senza averli consultati e senza avere compreso i loro bisogni, le aspettative, i progetti.
La questione è molto più ampia e complessa e riguarda il modello neoliberista imperante, la sua natura sempre più tendente alla produttività attraverso la competitività e la flessibilità assoluta.
L’idea cardine di questo modello, come sappiamo, è la privatizzazione posta alla base delle dinamiche economiche sotto forma di “guerra allo Stato, che crea inefficienze e lassismo e protegge i vagabondi” come sostenne Reagan, a cui contrapporre un mercato libero capace di creare ricchezza continua, che poi è la ragione del benessere e della felicità a cui tutti aspiriamo.
Con questo mantra si è alla fine imposta la globalizzazione, che ha liberato la circolazione delle merci in tutto il globo (le persone no), realizzando il mito assoluto del mercato e del consumo, l’omologazione dei gusti e del pensiero, il trionfo di von Hayek e Milton Friedman (la fine della Storia). La globalizzazione basata su crescita, produzione e consumo in un mondo diventato più piccolo, e soprattutto più veloce, ha sacrificato alla produttività diritti, sicurezza e qualità della vita e delle relazioni.
Le questioni del reddito e del lavoro non si sono allineate ai bisogni di crescita, il mondo del lavoro si è diviso tra lavori sicuri e lavori precari, il lavoro stesso si è impoverito, ha perso diritti e tutele e, nell’insieme, rispetto e riconoscimento.
La società stessa, negli ultimi 20 anni, ha visto la mutazione e il passaggio dalla società dei due terzi (il 66% della popolazione che pensa che si stava meglio quando si stava peggio) a quella del venti/ottanta (20% della popolazione, circa 12 milioni di individui a rischio di povertà), con un dieci per cento garantito anche per via ereditaria, un dieci super professionale utile a far girare il sistema e il restante ottanta percento precario, ricattabile, disponibile a perseguire produttività in tempi più rapidi possibile (la velocità).
I giovani, con tutti i loro limiti, non sono stati aiutati né dalla scuola né dalla famiglia; la guerra allo Stato ha indebolito la scuola e molti altri servizi di supporto, ha privato la formazione di un collegamento efficace (esclusi pochi casi) con il mondo della produzione, limitandosi all’uso distorto degli stage.
I giovani sono stati dati in pasto a un mercato sempre più tecnologico e selettivo, che tende a ridurne la capacità intellettuale e quella critica (il 76% non è in grado di comprendere un semplice testo nella nostra lingua, e il 26% è analfabeta culturale).
La questione della professionalità è dunque pertinente, ma la risposta non può che ricadere sulla contrattazione e sui diritti legati al lavoro, che rimangono gli strumenti con cui recuperare produttività, dignità, possibilità di ridurre le diseguaglianze crescenti oggi favorite dalle
deregolamentazioni, destrutturazioni, delocalizzazioni.
Ostacolare la contrattazione significa fare a meno dello strumento migliore per gestire controversie, per migliorare la produttività e gli standard di produzione aziendale. Inoltre, le aziende italiane sono particolarmente refrattarie ad assumere a tempo indeterminato, contribuendo ad alimentare il serbatoio della precarietà, certificata dalla crescita esponenziale delle assunzioni a tempo determinato.
La gig economy è il modello imposto da questa globalizzazione che produce diseguaglianze tra i lavoratori stessi, nelle cui file prolificano i working poor (i lavoratori che sono poveri lavorando), una marea di neet (giovani che non studiano e non cercano lavoro) e nuove forme crescenti di sfruttamento e di ricatto, che sono il vero motivo che tiene i giovani lontani da certi settori lavorativi.
Se i settori del turismo e della ristorazione continuano a rimanere vittima della precarietà e dell’incertezza, devono riflettere sulla propria organizzazione e iniziare una promozione diversa e un innalzamento generalizzato della qualità e questo lo devono fare soprattutto gli imprenditori e le istituzioni deputate. Nel caso specifico, è urgente uscire dalla logica delle nicchie e delle eccellenze per favorire una migliore e diffusa qualità.
La situazione umbra, a causa di ritardi, recessione e debolezze endemiche del sistema economico, è particolarmente colpita dal fenomeno della precarietà e interessa la gran parte dei nuovi occupati che, anche se aumentano di poche unità, rimangono prevalentemente precari a tempo determinato. Con il fenomeno emergente del lavoro autonomo (l’imprenditore di se stesso) in crescita, molto diffuso nei nuovi lavori della sharing economy o delle consegne a domicilio, in prevalenza appetiti da giovani, che poi sarebbero le false partite iva, un vizio italiano che rischierà di crescere con l’avvento dello smart working.
L’insieme di questi fenomeni, oltre alla pandemia e agli effetti nefasti della guerra, fa sì che i giovani umbri continuino ad andarsene senza poter essere sostituiti, disegnando così un fondamento classico del sottosviluppo. ◘
di Ulderico Sbarra.