Venerdì, 11 Ottobre 2024

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Siamo entrati nell’era post-americana

GUERRA. Occorre una politica cosmopolita contro l’irrealpolitik dei Governi.

silvia romano2

La guerra più prevedibile degli ultimi 20 anni, quella tra Stati Uniti e Russia combattuta sul suolo ucraino, ci viene presentata come “evento del tutto inaspettato” da fake-media, da analisti arruolati e a pagamento e da cancellerie dipendenti dalle trasnazionali neoliberiste, e dagli apparati militari industriali. Come prevedibile e drammaticamente scontata sarà la prossima guerra, quella che scoppierà in Europa, se non saremo in grado di fermare l’escalation di questo conflitto che per la prima volta nella Storia schiera sul terreno, in uno scontro diretto, le maggiori potenze militari e nucleari del pianeta. Se, invece, la guerra Usa-Ue-Russia in Ucraina si stabilizzasse in un conflitto prolungato tipo Afghanistan, o se si arrivasse a un qualche accordo tra Ucraina e Russia fondato su neutralità e concessioni territoriali, l’area geopolitica interessata dalla prossima guerra sarà quella del Mar Cinese Meridionale. Area nella quale gli Stati Uniti, a 10.000 chilometri dalle loro coste, hanno dato vita a un’altra Nato, il cosiddetto patto militare Aukus tra Usa, Gran Bretagna e Australia (ribattezzato la “Nato del Pacifico”). Uno scenario ancora più pericoloso, se possibile, di quello euroucraino, perché la Cina non è la Russia. Se la Russia ha il Pil dell’Italia, la Cina cresce l’equivalente di una Russia all’anno. È già oggi la prima potenza economia, commerciale e tecnologica del mondo, ha un proprio sistema di transazione globale alternativo allo swift e sta sviluppando un poderoso riarmo convenzionale e nucleare.

È di fine marzo l’accordo politico militare tra la Cina e le Isole Salomone, lo Stato arcipelago situato sulla rotta tra Stati Uniti e Australia, che consegna una posizione geopolitica strategica alla Cina, che è così in grado di intercettare tutte le manovre e gli scambi tra i due Paesi. È anche una sconfitta sul piano simbolico per Gran Bretagna e Stati Uniti. Per la Gran Bretagna, perché lo Stato delle Isole Salomone è ancora membro del Commonwealth e il Governatore, pur non contando nulla, rappresenta la Regina d’Inghilterra e da questa è nominato. E soprattutto per gli Stati Uniti che hanno sempre considerato le Isole Salomone “cosa propria”, a seguito della conquista nel 1942 di Guadalcanal, l’isola maggiore dell’arcipelago, dopo una delle battaglie più cruente di tutta la guerra del Pacifico.

La Nato latinoamericana e le “nuove vie della seta”

Se a questo scenario aggiungiamo la “Nato latinoamericana”, il quadro del militarismo globale che avanza e dei rischi di conflitto si completa e si allarga. È questo un dibattito del tutto sconosciuto in Europa (ne hanno parlato qualche giornale in Spagna, Francia e Germania), ma dominante in tutti i giornali e media latinoamericani. Specialmente a seguito delle manovre militari Nato-Colombia, svolte due mesi fa nel Mar caraibico colombiano, nel corso delle quali per la prima volta sono stati impiegati sottomarini nucleari americani. L’accordo è stato preparato dagli incontri tra il Segretario generale della Nato, il “socialista” norvegese Jean Stoltenberg, e il “bolsonariano” fascistoide Presidente della Colombia Iván Duque. Accordo confermato nella conferenza stampa tenuta da Stoltenberg e Duque nella sede Nato di Bruxelles il 14 febbraio scorso e ratificato dal Presidente americano Biden, con un attestato formale assegnato alla Colombia che non è previsto in nessun articolo della Carta della Nato: quello di “Paese principale alleato Nato non-aderente”.

Tutti i governi latinoamericani, escluso il Brasile di Bolsonaro, hanno protestato. Ma nonostante l’espansionismo Usa-Nato, lo scenario politico elettorale del continente non sembra evolvere nelle modalità che Biden e Stoltenberg auspicano. Lula, dato dai sondaggi vincitore al primo turno su Bolsonaro nelle elezioni brasiliane del prossimo ottobre, ha già duramente preso posizione e confermato il suo impegno per una America Latina che “esca progressivamente dal neoliberismo economico e politico e costruisca il progetto della “Patria Grande”. Il presidente argentino Alberto Fernández ha fatto di più. Il 4 febbraio si è incontrato con Putin a Mosca, ha sottoscritto accordi scientifici e commerciali e ha affermato che “l’Argentina deve diventare il ponte di accesso della Russia in America Latina, per consentire al suo Paese una diversificazione dei rapporti e liberarsi della dipendenza dagli Stati Uniti che ha prodotto  povertà e debito estero”. Il giorno dopo, 4 febbraio, il Presidente argentino è volato a Pechino per presenziare all’inaugurazione dei giochi olimpici e incontrare Xi Jinping. E dopo aver firmato importanti accordi nei settori tecnologici, sanitari e soprattutto estrattivi, con particolare riferimento al litio, ha testualmente affermato: «Le nuove vie della seta passeranno anche per Buenos Aires». Stesso orientamento è stato assunto dal Messico di López Obrador, dal Salvador, dal Nicaragua, dall’Honduras, dalla Bolivia, dal Venezuela, dal Perù e, seppur con maggior cautela, dal Cile del nuovo Presidente Gabriel Boric. Persino in Colombia, l’unico Paese del continente nel quale ha sempre governato un Presidente di Destra, militare o civico, tutto rischia di cambiare il 29 maggio prossimo. Nel primo turno delle elezioni di cinque mesi fa, il partito del Presidente Duque e dei militari golpisti è stato sconfitto, e nelle elezioni del prossimo 29 maggio il candidato che secondo i sondaggi può vincere al primo turno è Gustavo Petro, esponente della Sinistra, ex sindaco di Bogotà e già membro del gruppo guerrigliero guevarista M-19 negli anni ‘80. Come si vede, e come canta Mercedes Sosa, “todo cambia”.

L’idea di una cristallizzazione infinita della realtà in funzione dei nostri interessi euroamericani (l’11% della popolazione del mondo) è il prodotto di un pensiero delirante che non accetta “l’era post-americana” nella quale siamo pienamente entrati, che non accetta la dimensione multipolare del mondo e ripropone un mondo unipolare che esiste solo nella testa di uno speculatore immobiliare pericolosamente eversivo come Trump o di un geriatrico grave come Biden, “amministrato” direttamente dalla finanza transazionale di Wall Street e dal complesso militare industriale. Un potere che nel passato si limitava a condizionare i due “partiti unici” e il Congresso, ma che dall’11 settembre in poi gestisce direttamente Partito Democratico, Partito Repubblicano e Congresso senza neppure i compromessi e le mediazioni dei decenni scorsi.

I governanti incolti e irresponsabili di Stati Uniti ed Europa sono come quel gallo che pensava che il sole sorgeva solo quando lui cantava. Ma così non è. Dentro questa dinamica l’Europa non conta niente. Invece di ripartire dalle nostre radici storiche e culturali, dalle fondamenta istituzionali e dai valori che sono stati alla base della nascita dell’Unione Europea, siamo stati trasformati in arruolati senza pensiero e senza potere. Eppure una strategia europea deve essere sostanzialmente diversa da una strategia atlantica, perché diverse sono le finalità. Diverse sono le basi storiche, culturali e persino religiose. Umanistica, sociale e caritatevole quella europea, strategia ispirata al Nuovo Testamento, quanto bellicista, vendicativa e violenta quella americana, fondata sull’etica protestante e ispirata a una lettura semplificata e dogmatica del Vecchio Testamento. La non accettazione da parte degli Stati Uniti di questa nuova dimensione del mondo multipolare e la riproposizione di un unilateralismo aggressivo da potenza unica sono il problema principale per la sicurezza globale.

Alla (ir)realpolitik dei governanti del mondo, che hanno come solo orizzonte il potere, dobbiamo contrapporre una democrazia che abbia come obiettivo quello di costruire un nuovo ordine giuridico cosmopolitico. ◘

di Luciano Neri.


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