Cultura. Ripublicato il saggio di Carlo Bo. «In un mondo minacciato, la letteratura dovrebbe essere una guida, non un rifugio». (C. Bo).
In un tempo dominato dagli effetti disastrosi della pandemia da Coronavirus e dall’angoscia per lo spettacolo che sulla guerra tra la Russia e l’Ucraina i mezzi di comunicazione di massa organizzano a tutte le ore del giorno e della notte, può sembrare riduttivo e irresponsabile parlare d’altro, scrivere di cultura, discutere di scuola e tirare in ballo la letteratura e la poesia. Eppure, se ci avviciniamo ai testi degli scrittori e dei poeti e li ascoltiamo, forse impariamo ad ascoltare e capire quanti parlano di interessi territoriali, di confronti internazionali, di confini tra stati, di alleanze di governi, di guerre e distruzioni di città, di stragi incomprensibili e disumane.
C’è un testo di Carlo Bo (Letteratura come vita), nato come relazione al V Congresso degli scrittori cattolici (svoltosi a Firenze l’11 settembre 1938), e pubblicato su “Il Frontespizio” di Piero Bargellini nel numero di settembre dello stesso anno, che merita di essere riletto e discusso. Bo aveva allora 27 anni. Si era laureato (1934) in Lingua e Letteratura Francese a Firenze, si era specializzato presso l’Università Cattolica di Milano e aveva accettato (1938) l’incarico di docente di Lingua e Letteratura Francese presso l’Università di Urbino (Facoltà di Magistero) della quale è stato ininterrottamente, per 53 anni, “magnifico rettore” (1957-2001).
La posizione del giovane Bo è netta e decisa a proposito del concetto di letteratura: la letteratura «è in se stessa conoscenza»; non è «illustrazione di consuetudini e di costumi»; «è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza». Per Carlo Bo non esiste «opposizione fra letteratura e vita». Anzi, letteratura e vita sono «in egual misura strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi». Perché la letteratura «è la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita».
Ed è oltremodo significativo che, attraverso l’intermediazione di Jacques Maritain, il giovane Bo arrivi al Boccaccio del Trattatello in laude di Dante e ne richiami il concetto fondante: «Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più: che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio».
Alla fine degli Anni Trenta, nel clima di terrore che la minaccia bellica nazista e fascista aveva creato nell’intera Europa, il giovane Bo pone domande fondamentali alla letteratura. E da queste inchieste procede verso le incursioni successive che investono autori di grande rilievo nel panorama internazionale dell’Ottocento e del Novecento: da Mallarmé a Gide, da Leopardi a Serra, da Claudel a Garcia Lorca, da Kafka a Unamuno e a tutti i grandi rappresentanti della letteratura europea. E non sembra tanto interessato agli aspetti tecnici dei testi letti, quanto ai significati profondi della scrittura, alla possibilità di percorsi nella sostanza vitale degli autori (scrittori e poeti).
Giustamente, nella bella e articolata Introduzione all’ultima edizione del saggio giovanile di Bo1, Salvatore Ritrovato, critico letterario e poeta, osserva che lo studioso ligure non cercava «compromessi con l’accademia del suo tempo, né con quella che verrà dopo». Carlo Bo è convinto che il valore «di un testo non risieda nella sua forma, non risponda al canone della “bellezza”, ma dipenda dal suo grado di vita». «La parola ha una vita che si consuma sulla carta e vale per il suo margine ideale: per quest’eco che può avere nella nostra coscienza».
La poesia e la letteratura sono il risultato di «un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi»; sono l’opera di «una coscienza interpretata quotidianamente nel giuoco delle nostre aspirazioni, dei sentimenti e delle sensazioni». Concetti ribaditi e sviluppati negli anni successivi, alla luce di una concezione rafforzata della letteratura come «specchio segreto, ma pieno, ma intero della nostra vita»; una letteratura che sa trasformare le condizioni del quotidiano in un movimento superiore di vita, in un’ambizione di natura spirituale»2. Idee ripetute all’alba del nuovo millennio, quando - rispondendo ad un sondaggio del quotidiano «Avvenire» - precisava: «Il problema drammatico della civiltà che si affaccia col nuovo secolo sarà il poter ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata… Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà, un mondo che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana… Dovremo saper cambiare il mondo, come scrisse Rimbaud, ma in senso positivo, coscienti della difficoltà dell’impresa … Per quanto riguarda la letteratura … i prossimi decenni saranno ancora tempi di sperimentalismi»3. Concetti che erano stati ribaditi a Bologna nel 1989, a cinquant’anni dalla pubblicazione del saggio Letteratura come vita: «Se mi chiedono se la letteratura serve, risponderei che non si tratta tanto di servire, quanto di un aiuto a conoscere come siamo fatti, quali sono le nostre passioni e, soprattutto, quali sono le nostre fragilità, le nostre colpe e le nostre miserie»4. ◘
1 Ibidem, pp. 5-48.
2 Cfr. Carlo Bo, Necessità e senso di una partecipazione, in Scandalo della speranza, Vallecchi, Firenze, 1957, pp. 97-122.
3 “Avvenire”, 31 dicembre 2000.
4 Cfr. Carlo Bo, LETTERATURA COME VITA, cit., p. 48.
Di Matteo Martelli.