Chiesa in cammino. Il Sinodo interpella anche gli ordini religiosi, chiedendo a tutti un cambiamento.
Con Antonio Guerrini ci siamo recati al monastero delle Suore Cappuccine di Santa Veronica per parlare con la madre, Suor Chiara, per capire come, in una esperienza di clausura, principalmente contemplativa, possa essere vissuto il Sinodo, proposto da Papa Francesco.
Suor Chiara è molto accogliente, un viso giovane (ha solo 44 anni), da 20 è in convento e attualmente vive in una comunità con 8 sorelle, alcune anziane, ed è felice di rispondere alle nostre domande.
Lei è una monaca giovane, perché ha deciso di intraprendere questa esperienza di fede?
«Io tutto pensavo meno di entrare in un monastero e farmi suora. In un momento difficile della mia vita ho incontrato, nel silenzio, me stessa, ho incontrato il Signore e fatto l’esperienza di essere amata così come ero. Io, inoltre, volevo dedicarmi agli altri completamente e sentivo che la preghiera mi permetteva di arrivare a tutti.
Nell’agosto del 2001 sono entrata definitivamente in monastero, con la gioia di abbracciare una vita che era mia, nonostante il dolore di abbandonare il mio paese, i miei genitori e il lavoro che amavo molto».
Il monachesimo come può vivere le difficoltà della Chiesa attuale? E come può riuscire a testimoniare una fede agli uomini e alle donne del nostro tempo, sempre più lontani dalle tematiche religiose?
«Il monachesimo può aiutare a ritrovare le radici intorno al Cristo Risorto.
Noi non abbiamo una realtà visibile, viviamo, principalmente, un’attività contemplativa. Il nostro è uno sguardo legato alla Scrittura e al Vangelo. Questo radicamento può aiutare la Chiesa a non perdere la speranza. Si tratta di tornare all’identità profonda della Chiesa, abbandonando gli abusi di potere.
Se si torna alla sinodalità delle prime comunità cristiane, la Chiesa può riscoprire la fedeltà al Vangelo e all’essenziale e confermare le radici del Cristo Risorto».
Che valore ha il silenzio che voi proponete a una società in cui il rumore è la sua colonna sonora e la distrazione il suo passatempo preferito?
«Il silenzio è importante, innanzitutto per fermarsi e capire che il rumore c’è fuori, ma viene da dentro. Il silenzio ti permette di conoscerti per come sei e ad accettarti per ciò che sei.
Nel silenzio incontriamo lo sguardo del Padre che è uno sguardo che ti accoglie per come sei e ti fa accettare le tue fragilità. Noi viviamo in un certo modo nel silenzio, ma ci stiamo chiedendo come il nostro linguaggio possa essere compreso da chi ancora oggi si interroga, anche se la parola della fede non è più ovvia come un tempo. Prima la gente veniva alla Ruota, ma oggi non viene più. La nostra comunità monastica si interroga sui problemi del mondo: chi bussa al convento sono persone che non frequentano le parrocchie, con problematiche personali e vengono qui alla ricerca di uno sguardo che non giudica e hanno bisogno di un po’ di silenzio».
Perché scegliere di vivere una realtà separata dal mondo? In altre parole, la vostra esperienza riesce a dialogare con il mondo esterno?
«Il monachesimo ha bisogno di separatezza, ma, se vuoi, come comunità monastica cerchiamo di farci conoscere e far capire che abbiamo bisogno dell’altro per vivere la nostra umanità e la nostra fede, piano piano potremmo trovare spazi condivisi per sperimentare la bellezza dell’incontro. Noi viviamo nel silenzio, ma ci rendiamo conto che c’è bisogno di creare dei messaggi che vadano oltre la grata e arrivino a chi sta fuori. La nostra riflessione parte da come poter condividere i nostri spazi, affinché questo luogo molto grande possa essere condiviso, addomesticando in qualche modo gli elementi architettonici e strutturali come le grate. Possiamo pensare a momenti semplici, come quello che si terrà nel nostro chiosco venerdì 13 maggio e proporrà una riflessione e una testimonianza sul tema: « Essere cristiano in Iraq».
Le abbiamo rubato tano tempo, l’ultima domanda è di pura curiosità: leggete i giornali? Le nuove tecnologie vengono usate?
«Noi leggiamo i giornali, Avvenire, per esempio, usiamo Internet per essere informate sui fatti più importanti, tutto in modo sobrio e per essere collegate con il mondo esterno con i suoi problemi. L’invecchiamento delle sorelle e la diminuzione del numero delle vocazioni ci fa capire che abbiamo bisogno degli altri e, dunque, dobbiamo aprirci alla condivisione con altre comunità. La mancanza di vocazioni nasce dalla paura della scelta definitiva, che ogni scelta, anche la vita monastica, impone, per questo ci rendiamo conto che anche il linguaggio che noi usiamo deve cambiare per essere più vicine alla realtà, trovare risposte nuove è un percorso da intraprendere».
L’intervista si chiude con lo scambio dei numeri di cellulare e il proposito di rivedersi presto per dare risposta alle numerose domande che in quest’ora ci sono venute in mente. Salutiamo Suor Chiara e ci portiamo via un po’ di quella serenità e pace che ci ha trasmesso nonostante la GRATA. Grazie! ◘
di Maria Grazia Goretti