EVENTI. Cento anni dalla nascita di Alfredo Baldelli: l’artista, la galleria, la città.
Il secondo Novecento a Città di Castello ha registrato la creatività di personaggi destinati a lasciare un segno indelebile al più alto livello artistico: dal genio del Maestro Alberto Burri al talento raro di Nuvolo, dall’eclettismo immaginifico di De Rigù all’ eccellenza autentica di nomi quali Araf, Novello Bruscoli, Armando Perugini, ognuno con un proprio specifico percorso originale tale da escludere ogni altra contiguità, se non, parzialmente, quella anagrafica. Questi ultimi tre così legati da amicizia profonda, fuori da ogni possibile competitività, da aver inventato quell’autentico scrigno di intellettualità vera (mai snobistica né élitaristica, però) che per lunghi anni ha costituito “Il Pozzo”, molto più di una galleria d’arte, una parte importante della stessa identità tifernate. Quel mitico cenacolo degli anni ‘60/‘70 che non era solo la naturale ‘casa’ del magnifico trio Bruscoli, Araf, Perugini: rappresentava un’oasi di serena conversation-room che, nella memoria di chi ricorda gli inviti ai vernissages come un annuncio di festa, si fa quasi struggente.
La mostra antologica di Palazzo del Podestà, ideata organizzata e allestita con devozione filiale dal primogenito Renzo (artista di vaglia pure lui e ben noto con lo pseudonimo di Van Ozner), delinea una vetrina pressoché esaustiva della produzione di Araf, dai primi passi all’affermazione completa come artista di rango superiore, fino ai quadri più recenti, sempre connotati da quella freschezza d’ispirazione e da quella vitalità di tocco così evidenti nella sua compiuta parabola espressiva. Una rassegna, dunque, assolutamente emblematica dell’intero mondo interiore di Araf , delle sue intriganti stagioni narrative, della sua peculiarissima cifra poetica.
Nell’opera dell’Autore, realizzata con la celebre tecnica del colore filtrato dal retro della tela, paradigma insuperato nel genere, c’è il tema dominante dell’origine che lo ha accompagnato in ognuna delle sue fasi pittoriche.
Può trattarsi degli stupendi sfondi rupestri, dove rocce e fossili rinviano a una vetusta e al tempo stesso arcana scaturigine del mondo; ovvero degli scorci architettonici della città natale, che adombra un attaccamento pervicace e mai tradito delle proprie radici e di valenza riappropriativa; o ancora delle ammalianti e ammiccanti figure femminili di simbolistica ascendenza, flessuosi richiami di sguardi e di corpi da cui nasce la vita. E qui Araf sembra presago, in tempi non sospetti, del genere destinato ineluttabilmente alla predominanza.
Comune è comunque la matrice del suo universo estetico, la straordinaria vis formale delle sue linee pastose, delle sue sfumate pigmentazioni, delle sue misteriche dissolvenze. Come se avesse sempre voluto indicare, in quelle sue irripetibili evanescenze iridescenti di archetipi genetici, tutto ciò che può essere contenuto nello spunto principiante di ogni cosa, il bello e l’autentico, e poi il solenne e il cosmico, ma anche l’atavico e l’onirico e persino il dolce e il materno attaccamento terreno e astrazione di sacralità, enigmatica fascinazione ed esplorazione delle mille sfumature dell’animo umano.
E il tratto distintivo dell’Autore, con questa sua capacità di scalare cromatismi avvolgenti e coinvolgenti, si fa di volta in volta evocativo, senza divenire nostalgico, malinconico ma mai struggente, sensuale, pur lontano dai rischi di un erotismo ostentato.
Il tributo ad Araf (per molti versi come quelli dedicati negli anni scorsi a Bruscoli e a De Rigù) è ancora di più di una mostra e consente di esaminare l’originale apporto tifernate al dibattito artistico della seconda metà del secolo scorso: l’aver dato i natali a Burri ha favorito lo sviluppo di altri autori che, partendo da presupposti anche lontanissimi, sono comunque pervenuti a un risultato deformante rispetto al figurativo canonico, oppure, viceversa, ha teso a schiacciare talenti che, senza la maestosa quanto nobilmente “ingombrante” immanenza del Maestro, avrebbero potuto godere di maggiore luce propria? Un interrogativo di portata globale che non avrà mai risposta, ma che permette, oggi, di godere appieno l’evento. ◘
di Massimo Zangarelli