PERSONAGGI. Renzo Scopa a 25 anni dalla sua scomparsa.
Nell’esclusiva cornice del castello di Postignano, al confine tra Umbria e Marche, si svolge in questi giorni una mostra antologica di Renzo Scopa, nell’anniversario dei 25 anni dalla sua scomparsa.
Nell’ambito della decima edizione della rassegna “Un castello all’orizzonte”, l’esposizione dedicata a Renzo Scopa intitolata “Le metamorfosi dell’anima” è stata inaugurta il 23 aprile scorso, alla presenza, tra gli altri, del curatore Gualtiero De Santi.
Nel corso della lunga e proficua ricerca artistica che parte da Urbino, dove nasce nel 1933, per approdare in seguito a Città di Castello, dove creerà fino al 1997, anno della sua scomparsa, Scopa attraversa una vera metamorfosi, che lo porterà a definire la sua caratteristica cifra stilisica. Metamorfosi che transita dalla produzione incisoria e grafica, tipica dei suoi primi anni, alla pittura pennellata e agli schizzi di colore. L’artista non tralascia una coinvolgente nota letteraria a testinomianza di una esperienza personale forte ed evolutiva.
La mostra, voluta in occasione dei venticinque anni dalla scomparsa di Scopa, rappresenta sicuramente lo strumento appropriato per avvicinarsi in maniera completa e trasversale all’artista nella sua completezza. Al curatore della mostra Gualtiero De Santi, professore ordinario di Letterature comparate presso l’Università degli studi di Urbino, che più volte si è occupato di Renzo Scopa, abbiamo rivolto alcune domande.
Qual è il tratto saliente della creatività artistica di Scopa, che cosa lo caratterizza più di tutto?
«Gli inizi dell’impegno espressivo di Scopa sono urbinati. Non solamente per il fatto che egli era nato ad Urbino: nato e vissuto all’interno del centro storico, a pochi passi dal Palazzo del Laurana. Uno spazio che ha fortemente, anzi decisivamente, influenzato la sensibilità del giovane artista, il suo pensiero. In più, Scopa ha frequentato l’Istituto del Libro, dove insegnavano alcune tra le figure più rappresentative della “scuola incisoria urbinate”, in primis Leonardo Castellani. Un avvio dunque urbinate e grafico, il suo, che però lo vede subito libero dalla dominante formula lirica. Nel primo atto di quello che Tullio Seppilli ha chiamato poliformismo di Scopa, il processo di interiorizzazione dell’esperienza urbinate si è trasposto nelle illustrazioni di un testo anonimo medioevale, Contrasto del povero e del ricco, evidenziando la fusione tra un dettato espressionista e i tratti di un primitivismo dugentesco in cui emergevano i segni e una poetica incentrati su un senso tragico dell’esistere».
Ed inoltre, qual è il fil rouge della metamorfosi dell’artista, della sperimentazione evolutiva che lo accompanga per tutta la vita?
«Questa poetica dell’angoscia e della solitudine evolve incontrando le tendenze e i linguaggi del secondo Novecento. Scopa si avvicina ad esempio all’Informale, si volge persino al Cubismo; subito dopo, immergendosi in un materismo che non sembrava essere estraneo all’arte di Burri (nel frattempo si era trasferito a Città di Castello lasciando per sempre Urbino). Lavora sull’energia contenuta nella materia con i collages, non ignorando altri stilemi. Al centro di tutto rimane, però, un grumo che si sposta da linguaggio a linguaggio e che, nel caos in cui è immerso, trova un valore di sacralità, che si esalta in una linea cristologica presente sin dagli inizi. L’ancoraggio al dripping già sperimentato dai pittori dell’Action Painting e da lui applicato ai moduli di un esistenzialismo cristiano, vede comunque la conferma della sua autonomia di autore».
Fino al 4 giugno prossimo la mostra offrirà, dunque, ai visitatori l’opportunità di conoscere e approfondire l’opera unica di un tifernate di adozione, che, con il suo segno caratteristico, ha lasciato una traccia di grande valore, ben oltre il riferimento geografico, spaziando nell’infinita dimensione dell’arte. ◘
di Sabina Ronconi