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Boris Pahor e i bambini ucraini

PERSONAGGI. Addio a Boris Pahor. Altrapagina mese Giugno 2022

silvia romano2

È proprio vero che ci sono vignette che dicono tutto, diventando esse stesse un editoriale. Lo ha fatto Mauro Biani su Repubblica che ha definito Boris Pahor come “uomo di confine e dell’incontro”. Poche parole sufficienti a capire che una cosa sono i confini degli “stati nazionali”, spesso e volentieri decisi da guerre, un’altra cosa sono le “nazioni” che, determinate dal naturale spostarsi delle genti, non hanno delimitazioni nette, sono permeabili e vedono ai propri confini persone di lingue, culture, religioni diverse mischiarsi, risiedere nello stesso luogo, che diventa una particolare piccola patria. Perlomeno così dovrebbe essere. Invece i libri di Boris Pahor – triestino di lingua e cultura slovena – scritti in sloveno, hanno faticato a entrare in Slovenia quando era ancora parte dell’ex Jugoslavia, perché invisi al regime comunista, e anche in Italia, dove il grande scrittore triestino veniva tradotto raramente e solo da piccolissimi editori locali. Necropoli, il suo libro più noto, che l’ha fatto conoscere nel mondo, è stato pubblicato dall’editore Fazi, solo dopo il successo incontrato fuori d’Italia, in particolare in Francia, altrimenti Pahor sarebbe rimasto uno scrittore locale di una piccola minoranza slovena.

Un fatto che dovrebbe fare capire che la lingua parlata non determina con chiarezza i confini di uno stato, che questi non possono essere muri invalicabili, ma dovrebbero mantenere quella porosità che possa favorire scambi di cultura, parole, gesti, sguardi, unioni di persone. Lo si può constatare in varie parti del mondo. In Canada con i francofoni del Quebec, nel sud degli Stati Uniti sempre più bilingue con lo spagnolo e, soprattutto, in Europa, dove ogni Stato ha le sue minoranze linguistiche che andrebbero tutelate e considerate quello che realmente sono: una ricchezza da proteggere come ha fatto e fa l’Italia e come avrebbe dovuto fare l’Ucraina adottando il bilinguismo tra l’ucraino e il russo, due lingue, per di più, molto simili.

Sarebbe stato giusto farlo, anche se non è possibile dire che avrebbe evitato la guerra. Un mostro vorace e terribile, sempre alla ricerca di un motivo per scatenarsi. Capace di tirar fuori il peggio delle persone, come vediamo ora in Ucraina con l’invasione armata della Russia, con i simboli tatuati sui corpi di una parte dei combattenti, con la Z scritta sui carri armati invasori: con le morti, le distruzioni, i pianti di donne, uomini, bambini. Con la Russia che, nell’orribilità della guerra, sta mettendo in pratica una cosa altrettanto orribile: trasferire al suo interno bambine e bambini delle zone russofone rimasti senza genitori. Non li ha trasferiti oltre il confine per risparmiargli ulteriori conseguenze della guerra, verificando prima di tutto che fossero rimasti veramente orfani o cercando per loro – già così segnati dalla guerra – parenti o famiglie della terra d’origine disposti ad adottarli. Li ha spostati al suo interno, affidandoli a famiglie russe che ne garantiscano la russificazione. Temendo, evidentemente, che, da adulti, diventino come Boris Pahor, uomini e donne di “confine e dell’incontro”, consapevoli, come lui, degli orrori della guerra e delle dittature, diventando, come lui, testimoni di quanto visto e vissuto. ◘

Di Vanni Capoccia

 


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