Cultura.
Il settimo centenario della morte dell’autore della Commedia ha sollecitato studiosi e appassionati ad interrogarsi sull’opera dantesca, a ripercorrere le tre cantiche, a rileggere e reinterpretare la lingua del grande fiorentino1.
È stato scritto che l’italiano del poema dantesco sopravvive per l’82%. Il che vuol dire che la lingua che parliamo e che scriviamo è sostanzialmente la lingua trasmessaci da Dante attraverso le tre cantiche della Commedia.
Ci chiediamo: in che cosa consiste l’invenzione dantesca? Molti studiosi hanno ripercorso le tre cantiche, hanno registrato lemmi ed espressioni dantesche, si sono soffermati sulle singole parole, contribuendo così alla definizione dello straordinario vocabolario del poeta fiorentino.
Dante è stato sostanzialmente trascurato nei secoli XVI-XVIII. Nell’Ottocento e nel Novecento studiosi, scrittori e semplici appassionati della poesia italiana sono tornati a leggere la Commedia. Agli inizi del XX secolo – come ha confermato anche il centenario appena celebrato – l’interesse per il poeta di Firenze è tornato più vivo che mai. Gli studiosi e gli scrittori non hanno rilanciato soltanto l’autore della Commedia come intellettuale impegnato nella politica e nelle lotte cittadine, e come modello umano di grande spessore e di profonda attualità, bensì lo hanno indicato ancora una volta come maestro di lingua, sperimentatore di comunicazione, autorevole inventore dei mezzi linguistici che ancora si usano nel nostro Paese.
La varietà, la ricchezza e l’espressività delle scelte linguistiche del poeta fiorentino non sono soltanto un patrimonio a cui attingono scrittori e artisti a noi contemporanei: costituiscono l’eredità dantesca, registrata non solo nei dizionari dei nostri giorni, ma anche nella comunicazione dei parlanti e nelle scritture dei poeti, degli scrittori, dei giornalisti.
Dante, fin dai primi anni della modernità, non è stato percepito soltanto come modello di stile: è stato sentito come inventore della lingua della poesia e della lingua della comunicazione.
L’autore della Commedia – negli ultimi cento anni – si è affermato come maestro di plurilinguismo e di pluristilismo. Non solo poeti e scrittori hanno scelto e scelgono come modello Dante. Anche la comunicazione giornalistica e scientifica si è ispirata e si rifà alla scrittura dantesca, come esempio di concretezza e di efficacia comunicativa. Senza dire che il modello dantesco è vincente anche nei percorsi poetici sperimentali, che guardano all’autore della Commedia come simbolo e maestro di invenzione letteraria e linguistica.
Il citato saggio di Luca Serianni2 parte dalla constatazione – largamente condivisa – che fa di Dante «il creatore della lingua (e della letteratura) italiana»: lingua poetica «declinata in tutto il ventaglio dei suoi registri», «ma anche lingua della prosa scientifico-argomentativa col Convivio». Lo studioso non ignora che noi abbiamo letto e leggiamo la Commedia trasmessaci da lettori e copiatori del testo, in assenza di autografi dell’autore. Certamente possiamo consultare oltre 800 manoscritti di copisti che non hanno mancato di “personalizzare” il dettato dantesco, alterando volontariamente e/o involontariamente la lingua di Dante. Senza dire che la più antica circolazione del testo è registrata in area settentrionale, per cui non possiamo meravigliarci dei dialettalismi dei copisti, i quali hanno favorito – tuttavia – una grande diffusione dell’opera.
La lingua di Dante ha percorso i secoli della modernità e risulta centrale anche nell’italiano contemporaneo, come ha sottolineato Tullio De Mauro3 nel 1999, citando le parole che comunemente usiamo (casa, magro, dolore, affetto, amore, amare, famiglia, frate, succedere, terra, arrivare, giungere aspettare, andare, uccello, bontà, speranza …): leggendo i versi di Dante «siamo colpiti dall’aria di famiglia che ne emana: ci sembrano costruiti con le stesse parole che usiamo oggi»4 ◘
1 Cfr. L. SERIANNI, Parola di Dante, Il Mulino, Bologna, 2021.
2 Ibidem.
3 Cfr. T. DE MAURO, Postfazione, in Grande Dizionario della lingua italiana, UTET, Torino, 1999.
4 Cfr. L. SERIANNI, Parola di Dante, cit., p. 55.
Di Matteo Martelli