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Lettera a Ernesto Balducci di Raimon Panikkar

panikkarAmico,

conosciuto e ammirato da più di trent’anni, da quando nel 1960 capitai a Roma come per sbaglio e quasi per caso fui attivo nell’Università e nel Concilio Vaticano. Mi offristi la tua amicizia e anche l’ospitalità di Testimonianze. Si realizzò l’incontro di due esseri uniti nel Cristo inedito, che tu volevi comunque “rendere edito”, mentre per me andava bene così.

L’ultima volta che ci vedemmo, a Città di Castello, penso che tu sorridessi come Machiavelli nell’ascoltare le utopie del Savonarola. Eri molto d’accordo con i miei “sogni idealisti”, ma non ci potevi credere. Ormai sono gli occidentali a essere diventati fatalisti dinanzi all’impatto del potere della scienza moderna e della tecnologia. Tu mi abbracciavi fisicamente e psicologicamente: c’era un posto anche per me nell’uomo planetario – anche se io mi rifiutavo di essere un’entità soltanto storica e quindi intellegibile unicamente da un punto di vista evoluzionistico – magari alla Teilhard.

Più tardi ci parlammo al telefono per studiare la mia partecipazione a un convegno che stavi organizzando. Ahimé! Mi mancò la possibilità, e il nostro discorso non arrivò a una maturazione più feconda. Continuo dunque il monologo edito con un dialogo inedito. Nella memoria storica dalla quale tu parli sei vivo e molto vivo. Vorrei dunque dirti ancora un paio di cose.

Anzitutto la mia commozione dinanzi alla tua vita, non piango la tua morte. Questa ci permette di vedere la tua vita nella sua complessità. Sono troppo indiano? Me lo dicevi sempre!

Una vita di fedeltà al mistero, a quel mistero che quando è inedito resta vivo mentre muore quando è rivelato, come ci ricorda Carlo Prandi rievocando la bella iscrizione sulla tomba di Raffaele Pettazzoni. Proprio perché stavi ancorato a quella profondità hai potuto resistere alle più diverse edizioni del cristianesimo e della Chiesa. Non ne hai fatto la dicotomia, ma la distinzione. Non hai voluto separare il grano dalla zizzania. Hai saputo che il corpo appartiene anche all’anima, il logos al silenzio, la forma all’idea, l’apparenza alla realtà. Sei rimasto nella tua storia, ma l’hai superata in due direzioni: l’hai approfondita nella mistica (anche se sospetto che questa parola non ti piaccia), nell’esperienza della profondità del tuo essere, se così va meglio. E l’hai approfondita anche nel proporre nuove intuizioni, lavorando per un vestito più degno e più adatto alle sfide del nostro tempo.

Conosco, purtroppo, tanti altri che non hanno saputo resistere alle tensioni e hanno lasciato perdere tutto, hanno abbandonato la Storia, e dunque le istituzioni. In fondo sei stato fedele a te stesso.

Perciò capisco che quando io relativizzavo la Storia tu ti sentissi togliere il terreno sotto i piedi e avessi la sensazione di perdere il tuo punto di riferimento, la colonna della tua fedeltà. Nel calore della discussione e portato all’oggettività non mi rendevo conto che c’era anche la tua soggettività impegnata nel discorso. Ti chiedo perdono.

Vorrei dire ancora qualcosa rispetto all’evoluzione così fantastica del tuo pensiero. Leggendo i tuoi ultimi scritti ho l’impressione che tu dica molto meglio di me quello che da decenni mi sta a cuore. Voglio sottolineare la “trasformazione culturale” che hai vissuto non come una alienazione del tuo essere, come una abdicazione alla tua identità o alla tua religiosità (se anche questa parola vale), e meno ancora come un divertissement, ma come una continuazione in profondità della tua linea fin dall’inizio.

La tua ‘conversione’ alla pace mi sembra esprimere in una parola la trasformazione operata da quel Cristo inedito, da quella resurrezione non fotografabile che è stata il centro della tua vita. Grazie.

Mi hanno chiesto alcune parole a modo di prologo per questo libro così bello e profondo che parla della pace. Non lo posso fare, non avrei dovuto nemmeno accettare, perché non posso fare giustizia né al tuo capitolo né a quelli di Allam, di Terrin o di Prandi. Ma non posso nemmeno esimermi dal rendere omaggio a chi ci mostra una via e ci offre una guida per questo cammino che si apre dopo il neolitico, come tu dici.

Il mio omaggio è tanto più sincero in quanto nell’ordine intellettuale, pur essendo, e molto, d’accordo con la tua diagnosi (la quarta epoca, l’atomo fisico e biologico, ecc.), non condivido la terapia dell’uomo planetario né della città pianeta. Questa mi sembra ancora un’altra forma della stessa sindrome occidentale di una nuova universalità. Siamo molto d’accordo con la difesa del pluralismo, ma se esso non vuole (o non deve) essere irrazionale (come siamo d’accordo), è incompatibile con qualsiasi visione che non sia puramente formale della globalità e planetarietà; in ultima analisi, con il monoteismo religioso e la riduzione all’unità di una filosofia che sia esclusivamente razionale. Certo che il pluralismo non è pluralità, ma non è nemmeno unità. Forse quando affermi che «anche Dio è un ingrediente dell’uomo editus» andiamo nella stessa direzione. Ma poi ci parli ancora del “Dio inedito” – che, come ci fai notare, è quello dei cosiddetti atei. Certo! Ma io vedo il problema planetario ben al di là della discussione illuministica o post-illuministica della modernità occidentale. Ma tu hai ragione: il discorso con l’Occidente dominante si può fare solo partendo dalla tua impostazione. Nel libro si cita Giuseppe, il saggio cinese ammirato dal Saverio, che non volle, o non poté, diventare cristiano. Non voleva diventare uomo universale (cattolico, planetario). Mi spiego? Tu ci parli della sconfitta paradossale del Vangelo, ma aggiungi che questa sconfitta è la vittoria. Posso abbracciarti dicendoti che mi dichiaro sconfitto, ma senza vittoria?

Ma il cuore piange perché vive. Amen!

di Raimon Pnikkar


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