Mercoledì, 06 Novembre 2024

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Non c'è pace se non cambia il contesto

Guerra ucraina: contributi per una riflessione sul pacifismo. Intervista a Marianella Sclavi dell’Associazione nonviolenta Mean

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«Ci vuole ascolto e rispetto delle loro scelte, perché non esiste solo la nonviolenza che è l’alternativa totale alla difesa armata, ma esiste anche la nonviolenza complementare alla difesa armata. All’inizio gli ucraini pensavano di farle tutte e due, poi i loro tentativi di scendere in piazza disarmati davanti ai carri armati per farli arretrare non hanno avuto successo».

Marianella Sclavi è membro della Fondazione Alexander Langer e del Movimento europeo di azione nonviolenta (Mean); recentemente con la sua associazine si è recata a Kiev per incontrare la società civile ucraina, il Nunzio apostolico, il Sindaco e la Vicesindaca.

Come vi ha accolto la società civile ucraina?

«Le reazioni iniziali degli interlocutori ucraini sono state: “Non abbiamo tempo per queste cose! Adesso abbiamo bisogno di armi, di sanzioni e aiuti umanitari”. Anche da parte italiana ci sono piovute addosso critiche analoghe: “Non abbiamo tempo per iniziative come la vostra, l’urgenza vera sono gli aiuti umanitari e convincere gli ucraini a deporre le armi”, “Non siete abbastanza puri, pacifisti, e ancor meno nonviolenti” e così via».

E allora come si esce da questa contrapposizione?

non c e pace se non cambia il contesto altrapagina mese settembre 2022 2«Sono in contatto da anni con circuiti che lavorano in campo umanitario e che sono su una posizione di nonviolenza intesa come totale alternativa alle armi. Gli attivisti spiegano ai belligeranti che bisogna deporre le armi, perché continuare significa far morire più persone. Ma per gli ucraini essere sconfitti dopo aver tentato tutto per resistere è meglio che cedere. Noi vediamo la loro difesa armata come una risposta all’aggressione russa, mentre loro la vedono  come lotta in difesa della libertà contro un tentativo arrogante e feroce di sottomissione. Per loro “non è pensabile deporre le armi, perché questi sono assassini, torturatori, fanno cose atroci. La nonviolenza di fronte a chi ha già deciso di ucciderti, anche se non lotti, non è accettabile”. Dipende quindi dalla situazione contingente che devi giudicare».

Che cosa siete andati a fare allora a Kiev? Qual è il vostro obiettivo?

«Noi vogliamo unirci al popolo ucraino come un soggetto che promuove la democrazia europea, perché alla base di questa guerra c’è un fallimento dell’Europa. Un popolo che sta morendo per difendere i valori della democrazia ha tutto il diritto di dire che la democrazia in cui chiedono di entrare sia seria, e non può essere quella che non è stata capace di far rispettare nessuno degli accordi tra le due parti in conflitto e che spesso ha guardato dall’altra parte. Pensiamo che il popolo ucraino si sia conquistato col sangue e con il proprio coraggio il diritto di unirsi a un movimento europeo che chiede una democrazia effettiva, un Parlamento eletto dei cittadini, una democrazia Stati Uniti-Europa; si tratta di esperienze di democrazia deliberativa che ci sono, ma sono ancora isolate e non fanno parte del dibattito politico generale. La discussione con i nostri partner ucraini e anche italiani non riguarda solo la guerra, ma anche le crisi nelle quali siamo dentro e che rendono il mondo sempre più ingovernabile e conflittuale, e le nostre strumentazioni per affrontarle è quasi nulla».

Cambiare contesto richiede tempi lunghi e chiama in causa la politica. Che succede in questo tempo sospeso?

«Il movimento pacifista dimostra di essere rimasto a una impostazione di pensiero sociale e politico di due secoli fa. L’idea è questa: “noi diciamo cose giuste, poi ci deve essere qualcuno al potere che le metta in atto”. Come se tutto fosse una questione di volontà politica ( i “buoni” al potere ) e di rapporti di forza. Funzionano come se la loro sfera di azione fosse autonoma da tutto il resto: manca l’idea della complessità. Una società complessa funziona solo se le sue istituzioni “sanno” come si trasforma la diversità in risorsa e come si facilita l’emergere della intelligenza collettiva. Non è una questione solo di “buona volontà” , è questione di dinamiche di gruppo diverse da quelle imperanti nella democrazia rappresentativa del XIX secolo. Anche per prevenire la guerra, per intervenire nelle zone conflittuali che rischiano l’escalation sono necessarie le competenze e le istituzioni della democrazia deliberativa. Per questo diciamo che si tratta di costruire un Movimento Europeo di Azione Nonviolenta avente come scopo quello di vincere questa guerra contro le resistenze al cambiamento, le miopie politiche, gli stili di pensiero e di governo rimasti bloccati al XIX secolo. E che oggi il luogo più adeguato per proporre una discussione sulla democrazia europea è Kiev piuttosto che Bruxelles».

Lei ha fatto riferimento a un importante discorso di un politico africano (vedi scheda) tenuto all’Onu alcuni giorni prima che scoppiasse la guerra in Ucraina: vorrei che ce lo raccontasse.

«L’ho scoperto per caso su internet; ero stata chiamata a tenere un discorso al Giardino dei Giusti, a Roma, per piantare un albero ad Alex Langer. E poiché cercavo di non dire le solite banalità, ho letto questo discorso pronunciato all’Onu da Martin Kimani, ambasciatore del Kenya, il giorno prima dell’invasione, uno degli interventi più lucidi e lungimiranti sul comportamento della Federazione Russa e sulla situazione in Ucraina che mi sia capitato di leggere. Forse non a caso opera di un non-europeo». 

In cosa consiste il suo messaggio?

«Dopo la guerra fredda si sgela un mondo e se ne dovrebbe aprire un altro. In altri termini quando finisce un mondo bisogna ripensare i confini non per ricostruire omogeneità culturali, ma creare contesti più ampi dentro i quali è possibile valorizzare la diversità, l’interculturalità, mentre abbiamo lasciato che all’interno della politica della Federazione Russa andasse avanti l’approccio di usare sistematicamente la presenza di persone che sono di lingua russa o filorussi dentro altri Stati per acquisire quei territori. Di fronte a questo, la nostra reazione praticamente non c’è stata: ci siamo tenuti la Nato, che non ha più senso perché era nata contro l’Unione Sovietica che non esiste più. La politica europea su queste cose è stata tragica, per cui è inutile discutere e dire “è la Nato che ha provocato Putin oppure Putin che ha usato questo per provocare: sono due facce della stessa medaglia e per uscirne devo sapere come fare a superare entrambe”».

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Cosa è mancato a questo approccio?

«È mancato un protagonista politico autorevole capace di “trasformare le differenze in risorse” e di impegnarsi, accanto alle società civili dei vari Paesi europei, a riconsiderare il significato di “confini” per costruire qualcosa di più grande, forgiato nella pace.

Alex Langer sui temi dei confini e delle identità multiple ha sviluppato una delle sue proposte più importanti, tutta ancora da rendere operativa, che consiste nel dotare l’Europa di un dispositivo di Corpi Civili di Pace. Persone preparate, che adesso non ci sono, capaci di andare nelle situazioni di conflitto e di convincere le parti a mettere in atto altre modalità per risolvere la loro crisi. Altrimenti, la moltiplicazione delle opzioni positive per i popoli è uguale a zero». 

Il Papa ha chiesto ai giovani di rifiutare la guerra per ragioni morali e di coscienza, una disobbedienza civile che priverebbe gli Stati degli eserciti, senza i quali la guerra non si fa.

«Penso che per smettere di produrre armi e rifiutare la guerra, come è giusto che sia, sia necessario elaborare delle modalità di gestione dei conflitti alternativ. Il motivo per cui c’è la guerra è che di fronte a un conflitto abbiamo poche opzioni: o l’escalation, o la tolleranza, o la mediazione. Ma se la mediazione non funziona, rimangono le prime due. E quando succede, qualcuno prende le armi e qualcuno si difende. Anche il nunzio apostolico, rappresentante del papa a Kiev, ha osservato che quando fallisce la nonviolenza, che dovrebbe essere la prima risorsa, la gente ricorre anche alle armi, e ha aggiunto: “non posso dire che gli ucraini non hanno il diritto di difendersi anche con le armi”». ◘

di Antonio Guerrini


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