Cronache d’epoca.
Quella sera del lunedì di Pasqua 1921 Gostaccio tornava a Riosecco dove abitava; un paio di chilometri dall’osteria, appena lasciata, di Stefano nel rione San Giacomo. Cantava, strada facendo Gostaccio, il ritornello di una canzone che il suo amico Crescenziano, un falegname anarchico aveva sempre in bocca “spialluzzando” il legno in via dello Scorticatoio “…nostra patria e il mondo intero, nostra legge è la libertà…”. A Gostaccio piaceva la parola “Libertà”, che spesso perdeva per qualche inconveniente nell’esercizio del suo lavoro di svaligiatore di pollai e conigliere, finendo laggiù, nel punto più basso della città in via Fucci, dove esistevano le carceri. E cantava quella sera Gostaccio, a voce alta come la gradazione del vino bevuto nell’osteria di Stefano.
Purtroppo il caso volle che quella sera, ormai inoltrata sulla strada che va a Riosecco, Gostaccio incrociasse una masnada di fascisti, che quel giorno era venuta a Città di Castello per dare “una esemplare lezione ai sovversivi bolscevichi annidati nella città…”. Essi, nel pomeriggio avevano dato fuoco alla sede della Camera del Lavoro di via dei Casceri e ammazzato un uomo. Se Gostaccio amava la parola libertà, per motivi prettamente suoi, i fascisti la odiavano e la odiano, questa parola. Ci rimase male Gostaccio, per quella ‘scarica’ di manganellate che rimediò “sul fil dei reni”, quella sera sulla strada che porta a Riosecco. Non riuscì a capire il perché di quelle botte da “sderenato”! Lui che non sapeva niente di politica, troppo impegnato a diradare pollai! Così a poco più di vent’anni se ne andò nella Legione Straniera.
Augusto Corsini, detto Gostaccio, era nato a Riosecco sul finire dell’‘800, di statura normale, nessun segno particolare, se si esclude il fatto che per otto mesi dell’anno stava “inguluppéto” in un vecchio “farajolo” perché sentiva sempre freddo.
Ignorava le regole del saper vivere, anzi le infrangeva così, istintivamente. Insomma un Picaro bello e buono, meno buono per polli e conigli, ma si sa, nessuno è perfetto. Vi rimase qualche anno nella Legione Straniera, per poi tornare a Città di Castello con qualche parola in francese e cantava Francinemonamour… forse il ricordo di quella donna che aveva tatuata sul petto. D’inverno dormiva al calduccio nella fornace di laterizi che allora esisteva a Riosecco. Qualche volta aiutava i contadini nei lavori dei campi, portava con sè una borraccia ricoperta con panno verde residuo della guerra ’15 -’18. Al su passaggio, vicino ai casolari, i contadini tremavano più dei polli e per tenerlo buono non gli facevano mancare il vino nella borraccia della prima guerra mondiale… lui, Gostaccio, ringraziava… e via, con passo svelto ingoiato dalla campagna, non prima però di aver dato una fugace occhiata, da professionista, a pollai e conigliere. E lui cantava “Francinemonamour…”. Caratterizzando il tatuaggio sul petto. Nell’ultimo dopoguerra, nel corso di un interrogatorio, un brigadiere dei carabinieri, “inavvertitamente”, gli cavò un occhio. Venne risarcito con 5000 Lire. Gostaccio era orbo e anche la giustizia, si fa per dire, aveva chiuso un occhio.
Ormai era vecchio Gostaccio, vecchio, solo, stanco, orbo. I contadini non avevano più timore al suo passaggio, nemmeno le galline, che, nel vederlo, seguitavano tranquillamente a razzolare. La fornace di laterizi di Riosecco era spenta, anche Gostaccio stava spegnendosi lassù, al ricovero della Muzi-Betti. Quella sera non riusciva a prendere sonno, aveva tanto freddo. Aggiunse alle coperte il suo vecchio farajolo. Piano, piano, il tepore prese il posto del freddo; si addormentò Gostaccio, l’ultimo sonno di onesto ladro di galline e conigli, Augusto per la mamma. E per tutti gli altri, Gostaccio di Riosecco. Nessuno riuscì a svegliarlo quella mattina che il primo sole stava indorando la cima di quei cipressi del cimitero, lì a due passi. ◘
di Dino Marinelli