Martedì, 10 Dicembre 2024

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Una emeregenza silenziosa

Inchiesta anziani. Tra assistenza e cura operano una miriade di istituzioni, ma la condizione degli anziani rimane precaria.

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Le statistiche parlano chiaro: siamo un Paese di vecchi. L’Italia è il secondo Paese al mondo, il primo in Europa. Oltre il 40% della popolazione è over 65. Inoltre c’è una nuova emergenza silenziosa: “…la presenza massiccia di persone anziane (over 74) che vivono sole: 2,5 milioni. Rappresentano il 4% circa della popolazione complessiva, ma ben il 40% delle persone oltre 74 anni di età. Le proiezioni demografiche dicono che diventeranno 3,6 milioni nell’arco di 25 anni (2045) e che, a quel punto, rappresenteranno il 6% della popolazione complessiva”. Presente e futuro dunque pongono tutti di fronte a un problema enorme: l’invecchiamento implica un investimento socio-assistenziale e sanitario straordinario per consentire agli anziani una qualità di vita dignitosa, sia che siano assistiti a domicilio sia in comunità. Ma è quello che sta avvenendo?

Nel nostro territorio la gestione della “terza” e “quarta” età è affidata a una miriade ibrida di strutture socio-assistenziali, sanitario-assistenziali e sanitarie. La gestione socio-assistenziale è coperta dalle cosiddette “residenze servite”, gestite da cooperative private o istituti religiosi. Nel segmento successivo ci sono le residenze protette a prevalente contenuto sanitario (nel nostro territorio sono due: Muzi Betti e Istituti di beneficienza G. Balducci); infine le Rsa, Residenze sanitarie assistite a esclusivo contenuto sanitario, ridotte a un solo reparto ospedaliero, a Umbertide, dopo la chiusura dell’analogo reparto nell’ospedale di Città di Castello, adibito a cura dei malati di Covid.

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A queste bisogna aggiungere l’assistenza domiciliare per anziani gestita dal Comune, un sostegno alla cura personale (lavarsi, vestirsi, compagnia alle persone sole, spesa ecc.) e quella sanitaria a domicilio gestita dalla Asl. Queste ultime misure hanno l’obiettivo significativo di mantenere le persone nei loro luoghi di vita, aiutando le famiglie a svolgere quelle cure sanitarie, non assolvibili se non con personale specializzato, o di sollievo, per alcuni momenti della giornata, che possano facilitare il loro impegno giornaliero. Impresa estremamente lodevole, ma scarsamente efficace ai fini pratici. Tali aiuti domiciliari si concretizzano nella permanenza di periodi troppo brevi, un’ora due ore, tre ore per poter costituire un aiuto sostanziale a chi ha interesse a mantenere gli anziani a casa. Un panorama complesso, integrato tra assistenza e cura, tra domicilio e residenzialità in istituti, che avrebbe bisogno di investimenti e di personale molto superiori a quelli in dotazione ai Comuni e alle Asl.

una emeregenza silenziosa altrapagina mese settembre 2022 4Le residenze servite sono quelle che vivono in una specie di limbo senza una identità precisa. Esse sono autorizzate dal Comune e la loro attività, puramente assistenziale, è rivolta a persone ultrasessantacinquenni autosufficienti. In Altotevere operano 7 strutture di tale natura e possono garantire l’assistenza a 168 anziani. La retta oscilla per tutte tra un minimo di 1.700 euro a un massimo di 1950 euro, quindi una sostanziale omogeneità. Solo in due strutture si superano i 2.000 euro. Cifre ampiamente giustificate dall’enorme investimento in personale, vitto, alloggio, materiale necessario per l’assistenza, ecc., tuttavia somme non a portata delle pensioni percepite dalla maggioranza degli anziani, che spesso non arrivano a mille euro o li superano di poco. Nel qual caso intervengono le famiglie o, dove non è possibile, il Comune con propri contributi. La decisione di ricorrere al ricovero per molti è una scelta obbligata, ma difficile da assumere, sia sotto il profilo affettivo che economico. Chi decide di tenere i propri familiari a domicilio, deve farsi carico della loro assistenza nella maggior parte dei casi affidandosi a badanti, prevalentemente straniere, un esercito difficile da quantificare. Il loro impiego passa quasi sempre attraverso apposite agenzie che curano i rapporti sia nei confronti delle famiglie che delle lavoratrici: rispetto delle normative contrattuali, diritti sindacali, versamento dei contributi, ferie, tredicesime, sostituzioni. I costi, in questi casi, oscillano da un minimo di 1.700 euro al mese per persone autosufficienti assistibili, a un massimo di 1950 euro e oltre. A esse vanno poi aggiunte le spese della gestione dell’appartamento: vitto, bollette, presidi sanitari, ecc., il tutto per cifre che superano, e non di poco, i duemila euro. Il merito di aver equiparato e tutelato le lavoratrici a domicilio si scontra con le scarse disponibilità delle famiglie che, spesso, non possono sostenere tale onere finanziario nemmeno in presenza dell’assegno di accompagnamento.

Il ricovero nelle residenze servite diventa quindi la via obbligata. In queste residenze vengono ammesse solo persone autosufficienti secondo la definizione data dalla normativa regionale (L.R. 16/2012), per la quale sono da considerare autosufficienti le persone “di età superiore a sessantacinque anni anche con limitata autonomia fisica…” certificata dal medico di base. Cosa significhi “limitata autonomia fisica” è di difficile interpretazione, pertanto il certificato rilasciato dal medico di famiglia può essere contraddetto dal successivo esame da parte degli organi di controllo quando intervengono nelle strutture, Nas e Nucleo di valutazione territoriale, che sono sempre emanazione della Asl.

Può così capitare che, dopo una certa permanenza nella struttura, la condizione dell’anziano si aggravi e necessiti quindi l’intervento del Nucleo di valutazione territoriale. Se tale organo stabilisce che l’utente abbia bisogno di cure sanitarie e pertanto debba essere ricoverato in altra struttura, o residenza protetta o Rsa, è necessario predisporne il trasferimento. Tuttavia tale passaggio può richiedere del tempo. La legge prevede, in tal caso, che l'anziano, pur bisognoso di assistenza sanitaria, possa rimanere nella residenza servita per altri 180 giorni, dopodiché, il residente-assistito, diventato paziente-curabile, deve necessariamente lasciare la struttura assistenziale per essere trasferito nella residenza protetta a più alto contenuto sanitario. Ma nei 180 giorni di “attesa”, l’assistenza sanitaria, catetere, somministrazione del cibo per via parenterale, piaghe e altro deve essere fatta da personale infermieristico, di cui le residenze servite non dispongono. In questi casi, trascorso tale termine senza che si possa effettuare il trasferimento, la Asl interviene con l'assistenza domiciliare presso la residenza stessa.

una emeregenza silenziosa altrapagina mese settembre 2022 5Il passaggio da una struttura all'altra è comunque inderogabile, ma, se tale permanenza si prolungasse oltre i limiti consentiti con una gestione impropria da parte di strutture di mera assistenza, si potrebbe configurare la situazione assurda che l'anziano venga dimesso senza trovare posto nella residenza protetta: o per mancanza di posti o perché la Regione non paga il 50% della retta (quota sanitaria) per mancanza di fondi. Il sistema  ha concepito l’assistenza agli anziani come una serie complessa di vasi comunicanti adatti ai loro bisogni, ma il rischio dell'intoppo è dietro l'angolo e quando capita, le conseguenze ricadono sugli anziani stessi o sulle loro famiglie. L’anziano, infatti, dimesso dalla residenza servita e non accolto nella residenza protetta potrebbe trovarsi con l’unica possibilità di dover ritornare in famiglia dopo molti anni di assenza, o in una casa che non c’è più o in una famiglia che non c’è più. Una situazione al limite dell’assurdo ma possibile, risultato di una legislazione regionale approssimativa.

Il nodo di tutto questo complesso sistema è l’enorme carenza di investimenti finanziari, i quali mancano sia nella sanità sia nell’assistenza. Con alcune disparità di trattamento da segnalare.

Durante il Covid le strutture a prevalente contenuto sanitario, le residenze protette in questo caso, hanno usufruito dei ristori messi a disposizione dal Governo: una boccata di ossigeno estremamente importante per il loro funzionamento.

Le residenze servite, che svolgono in parte anche funzioni sanitarie per piccoli o lunghi periodi (a causa della degenza ospedaliera dei residenti e prosecuzione delle terapie sanitarie nelle strutture servite), sono rimaste prive. Così come risulta del tutto insufficiente l’assistenza domicilliare, che prevede la permanenza degli operatori presso l’utente per poche ore a giorni stabiliti: una goccia nel mare.

La Casa della Salute, da costruire o nell’ex ospedale o presso la Muzi Betti, come previsto dal Pnrr con l’impiego anche del Lascito Mariani, si è dissolta: Case della Salute si faranno a Gubbio e Guado Tadino,  a Città di Castello, invece, sarà costruita la Casa di Comunità con i finanziamenti del Pnrr, che è altra cosa dalla precedente, in Via Vasari. Ma è già lotta sulla destinazione dell’immobile: i sindacati si sono intestati questa battaglia chiedendo a gran voce che essa venga fatta nell’ex Ospedale, premessa del suo recupero e il mantenimento della sua destinazione a servizi sanitari. Ma la Regione non è dello stesso avviso.

Intanto il Lascito Mariani, che avrebbe dovuto essere impiegato per la Casa della Salute, ha cominciato a essere utilizzato per scopi diversi da quelli indicati dai donatori. Riecheggiano ancora le parole dette all’epoca dal Sindaco Bacchetta: “Ci opporremo a impieghi diversi del Lascito Mariani da quelli da noi indicati per la costruzione della Casa della Salute: dovranno passare sul mio cadavere”. Il Lascito ha cambiato destinazione e non si è visto nessun cadavere. Il risultato è sconfortante: leggi, programmi regionali e comunali sono pieni di proclami roboanti; in pratica la condizione degli anziani è lontana dall’essere accettabile, spesso affidata più alle cure dei familiari e dei volontari che a servizi veramente efficienti. ◘

di Antonio Guerrini


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