Rubrica: di(a)lettiamoci. Parlate castellane e dintorni.
Il lavoro che porto avanti sulla lingua, in modo specifico su quella locale, ovvero sui dialetti, è un po’ inconsueto se rapportato alle idee comunemente diffuse al riguardo (almeno da noi). Una persona che stimo ha affermato affettuosamente che sto percorrendo una strada in salita. Probabilmente è così, perché l’impostazione che ho scelto è abbastanza diversa dall’abituale. Qualcuno potrebbe considerarmi addirittura un «eretico»!
Ciò che faccio è contribuire a studiare in maniera scientifica i codici linguistici «piccoli», partendo dal mio primo, e tentare di promuoverne l’utilizzo1. Il punto è che lo faccio per amore della pluralità e della lingua in sé, più che per orgoglio municipale o per «valorizzare le tradizioni», come si dice spesso. Men che meno m’interessa la comicità grossolana, erroneamente collegata al dialetto.
Posizioni come queste, a volte, non vengono capite, ma si sono dimostrate le sole in grado di salvaguardare effettivamente gli idiomi locali. A suffragare tale approccio ci sono tante ricerche (che si citeranno più avanti, se ci sarà occasione), nonché l’esperienza di numerose realtà bilingui e multilingui, dalla quale prendo spunto2. È a quell’esperienza, infatti, che sembra opportuno guardare pensando al futuro, se ci sta a cuore il dialetto, e non limitarsi ad animare qualche circolo d’appassionati.
Perché questo? Facciamo una prova: sappiamo porci davanti alla parlata locale senza aspettarci di ridere sguaiatamente? Sappiamo discuterne senza per forza tirare in ballo i proverbi, la cucina tipica, le «antiche usanze»? Sappiamo vedervi un codice verbale fatto né più né meno del «materiale» di cui sono fatti tutti gli altri? Se ci riusciamo, vuol dire che la lingua c’interessa davvero, perché essa esprime molto di più di quanto sopra elencato, anche se minuta. Vuol dire che abbiamo l’atteggiamento adatto a servircene in ogni contesto, cosa fondamentale per la sua sopravvivenza – e più lingue si parlano, meglio è! Questo è lo spirito d’una comunità poliglotta, colta e aperta. Ma se crediamo che, mettendo da parte i soliti elementi retorici, non rimanga nulla («buoni» o «cattivi» che siano), perché siamo convinti che il dialetto rappresenti un tutt’uno con quelli e non lo si debba adoperare nel quotidiano, allora abbiamo già emesso una condanna. A nulla vale che ci diciamo «il dialetto è importante, va salvato», se poi lo lasciamo in un angolo. Così facendo, smetteremo di sentirlo nostro in poche generazioni, finendo per dimenticarcene completamente, e la sparizione d’un patrimonio linguistico non è cosa utile a nessuno. Queste, purtroppo, sono le conseguenze di certo provincialismo.
Se ormai parecchi «valori tradizionali» appaiono inaccettabili e l’identità non è più necessariamente legata a un territorio o a determinati costumi, la lingua, al contrario, è per me sempre valida e universalmente spendibile, giusta e accogliente, per questo va coltivata. Dirò di più: se non trattiamo con piena dignità le piccole parlate, in preda a stereotipi e pregiudizi, è difficile credere che riusciamo a trattar bene le persone (o la natura). Lo dico con in mente in particolare gli «ultimi» e i più deboli – come debole è la lingua locale di fronte ai mezzi di quelle «grandi» –, dunque il povero, lo straniero, l’emarginato.
La questione è ampia e complessa, e contemporaneamente avvincente. Sicuramente è ora d’affrontarla, poiché l’alternativa è attendere inerti che una ricchezza culturale vada persa, e con essa un’occasione di condivisione. Spero, quindi, che qualcun altro percepisca lo stesso richiamo e inizi ad accompagnarmi lungo la strada, per quanto scoscesa e dissestata.
Benché non direttamente collegata all’articolo, vorrei condividere con voi una mia poesia, scritta ancora nel dialetto di Lugnano. Questa è tuttavia d’attualità, per motivi climatici e non solo, oltre che un esempio di alcune caratteristiche linguistiche tipiche.
La sciųtta3 La tèrra ë brųsscia, guäṡi ch’abruscia. L’argįlla rŏsscia color del migno maggna gnicosa. N c’ë manco ’n sëggno, anche ’l piŏ mįggno, che prèsto arpióa. |
La siccità La terra è arida, sembra bruciare. L’argilla rossa color del minio si mangia ogni cosa. Nemmeno un segno, anche il più piccolo, che piova ancora. |
di Matteo Nunzi