Venerdì, 19 Aprile 2024

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La pittura informale di mida

Arte di Angela Ambrosini. Un caleidoscopico saluto all’ESTATE.

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“Il mio dipingere non è mosaico! La mia è pittura e della pittura ha tutti gli ingredienti, le metodologie, i tempi, la magia. Tessere, rombi, quadrati, pentagoni, esagoni irregolari, dipinti uno a uno, sono maniacalmente disposti uno accanto all’altro e si muovono in libertà sulla tela o qualunque ne sia il supporto”. Da una conversazione-intervista con il pittore umbro Massimo Dini (Mida), dopo anni di collaborazione e di amicizia, emerge la fisionomia più autentica del suo mood artistico informale che l’ex docente e direttore dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, il pittore Giorgio Ascani, alias Nuvolo (componente insieme a Mida della stessa cerchia artistica tifernate di cui faceva parte anche Burri), definì, vedendolo alle prese con le prime opere “frammentaliste”, un “Jackson Pollock rallentato” in virtù di quella sua peculiarissima “pittura gestuale al rallentatore” che di Pollock non ripropone il dripping, la gocciolante tecnica dell’action painting, quanto piuttosto ciò che definiremmouno slow painting pazientemente conseguito tessera dopo tessera e che di musivo ha solo l’apparenza, di qui l’accalorata precisazione del nostro pittore. In effetti il suo sapiente cromatismo lenticolare restituisce la fisionomia ultima di variegati mosaici come pure della tecnica del Trencadís del liberty catalano di Antoni Gaudì che, purtuttavia, proprio in quanto architetto, non è tra i riferimenti del nostro artista. Di certo lo sono, per ammissione dello stesso Mida, il già citato Pollock, “come pure Burri, Kandinsky, Mondrian e chissà quanti altri” e, in un affascinante amarcord, Massimo prosegue: “l’imput che ritengo alle origini di tutto è senz’altro quello della lunga parete a lastroni che costeggia e delimita l’ultimo tratto della ferrovia che porta alla stazione Sant’Anna di Perugia.

Per mesi durante gli anni di studio all’accademia, immaginavo la lunga parete con le pietre dipinte sempre in maniera diversa a seconda del mio stato d’animo”. La paziente tessitura pittorica del processo compositivo dei suoi quadri acquista un ruolo preponderante rispetto alla tappa finale della composizione stessa, motivo per cui, suppongo, il nostro artista dichiara di attribuire un titolo alle sue creazioni solo dopo l’ultima pennellata e procrastinandolo in tempi lunghi; forse anche perché, osserva giustamente, “una stessa opera può svilupparsi in tempi lontani”. Prosegue il pittore: “Da sempre dare il titolo è il momento conclusivo nelle mie opere, spesso addirittura dopo la firma e rigorosamente da apporre sul retro della tela. L’ultima ‘non pennellata’ che mette fine all’atto artistico, alla creatività, dando al dipinto nascita, nome, anima”.

Il quadro qui proposto, inizialmente Senza titolo, è stato più tardi ribattezzato Estate e la disposizione grafica a serpentina di alcune “tessere” ha dato origine a questa mia lirica, una sorta di rudimentale calligramma in stile Apollinaire nel quale il processo associativo con la lettera “esse” è stato così prorompente da informare di sé anche la scelta lessicale di un’invadente allitterazione. Un siffatto percorso di tipo ludico mi ha spinta anche a far sì che le lettere dei versi si impregnassero dei colori dell’opera, identificando in un certo senso il segno iconico con quello verbale. Va detto altresì che il fraseggio compositivo di questo quadro scorre entro uno schema meno astratto della maggioranza dell’abbondante produzione pittorica del nostro artista, offrendomi così la possibilità di ipotizzare una specie di poesia visuale nella quale, tuttavia, la forma non prevale sul contenuto. Anzi, l’evoluzione più scura dei corpuscoli cromatici del dipinto ha evocato in me l’idea di una fine-estate che getta ombre sulla solarità dell’impianto, come si evince dall’ultimo verso. In forza di questa libertà interpretativa, nel corso della nostra collaborazione la natura non figurativa dei suoi quadri non ha rappresentato un ostacolo alla realizzazione della mia impresa in versi, al contrario, sembra accogliere, nell’organizzata struttura di tasselli di colore, l’intuizione primigenia del messaggio poetico evocato. La nostra sinergia ha sperimentato anche il processo inverso, cioè dipinti di Mida generati da mie poesie e approdati dieci anni fa alla realizzazione della fortunata Mostra di Arti “Ars gratia artis: il colore delle parole” allestita come evento collaterale al Festival delle Nazioni di Città di Castello.

Componente focale, a mio avviso, delle creazioni di Massimo è la luce, sostanza primaria che, come nelle vetrate policrome delle cattedrali, permea e dà rilievo allo spazio cromatico in una ricerca inesausta del loro mutuo rapporto. Il tutto in un modello compositivo che non è mai emotiva pulsione informale affidata al caos o al caso. Asserisce infatti il nostro artista: “Nel mio lavoro cerco, molto più che agli inizi, d’inserire le sensazioni di movimento, spazialità, tempo, dando preziosità al colore nella libertà di un ‘caso’ fine e ricercato e il soddisfacimento catartico che ne traggo è il senso di un’estrema creatività”. L’apparentemente ossimorica definizione del “caso ricercato” fa eco alla nota affermazione di Braque “amo la regola che corregge l’emozione” e di questo stesso paradigma paiono sostanziarsi le tele di Mida, in sintonia con la cifra stilistica dei miei versi nei quali il sentimento (tedioso termine ormai abusato in campo poetico) risulta sempre incanalato, come Wordsworth insegna, nel tunnel della disciplina formale: “Poesia è emozione rivisitata in tranquillità”. Se sostituiamo il termine “poesia” con “arte”, le suggestive, originali composizioni informali di Mida enucleano, mutatis mutandis, lo stesso concetto elaborato dal grande esponente del romanticismo lirico inglese nei confronti dell’atto ◘

di Massimo Dini


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