Venerdì, 19 Aprile 2024

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Aprire il carcere alla società

Carcere.

silvia romano2

Nonostante qualche articolo che esce ogni tanto su alcuni giornali più “sensibili”, siamo veramente in pochi a parlarne: 64 suicidi nelle carceri italiani nell’anno in corso sono un fatto che toglie il fiato, il segnale di una sofferenza che si evidenzia per i detenuti, che sono stati condannati legittimamente alla restrizione della loro libertà personale (e già questa è una sofferenza sufficiente), ma non a “marcire” in condizioni disumane, come di fatto avviene in moltissime strutture penitenziarie. Una realtà che ci interroga e di cui abbiamo voluto parlare con Daniela de Robert, componente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.

Che cosa pensa della attuale situazione delle carceri italiane?

«Si tratta di una realtà molto disomogenea, tuttavia vi sono alcune criticità comuni, evidenziate dal Covid. C’è ancora un vuoto di attività sociali, culturali, educative dentro le carceri, e che la pandemia ha imposto duramente, che crea molto disagio, molta solitudine. C’è una di difficoltà di dialogo e di collaborazione con le istituzioni sanitarie, e questo è un problema molto serio, perché in gioco c’è il diritto alla salute. C’è una carenza grave di personale: molti istituti sono privi di direttori. Ora ne sono stati nominati 57, ma prima che potranno entrare in servizio passerà ancora del tempo. Mancano poliziotti, educatori, medici. Mancano gli spazi fisici (posti disponibili 47.394, presenze 54. 974), ma non dovunque: regioni e istituti sovraffollati e regioni e istituti sottooccupati. Le sezioni femminili sono più “vuote”, perché le donne sono solo il 4% dei ristretti e gli uomini, ovviamente, non possono essere collocati nelle sezioni femminili. E poi c’è il problema delle persone provenienti da aree sociali molto fragili, che hanno pene di breve periodo (1.307 con una condanna inferiore a un anno e 2.549 con condanne da uno a due anni) e che pertanto potrebbero accedere a pene alternative».

aprire il carcere alla societa altrapagina mese ottobre 2022 1I detenuti delle nostre carceri vivono in uno stato di afflizione gravissimo, che non interessa la politica e non interessa i cittadini. Il carcere è la cartina di tornasole della società. La vergogna della morte e del dolore nelle carceri italiane ricade su di noi. Come vincere questa indifferenza?

«Con il Garante nazionale il primo settembre abbiamo lanciato un appello ai leader politici affinché il carcere entri nel dibattito politico, superando gli estremismi ideologici, per trovare un terreno comune di impegno nell’affrontare i problemi più urgenti del carcere, di cui abbiamo parlato. A me sembra che il nodo centrale in questo senso sia il “sentimento di non appartenenza” del carcere e dei suoi abitanti alla collettività sociale. Il carcere è parte della nostra collettività, su questo non c’è alcun dubbio. Le persone che vi sono recluse ne sono parte, perché prima e dopo il carcere tornano nel tessuto sociale; coloro che ci lavorano ne sono parte, i familiari anche. È necessario fare uno sforzo culturale per superare questo sentimento di esclusione. È necessario che i territori si aprano al dialogo e alla accoglienza di quelle persone che possono scontare la pena in strutture alternative al carcere, che sono più funzionali a un ritorno positivo nella società. Vincere l’indifferenza è un compito di tutti: dei media che parlino di carcere nella quotidianità e non solo quando succedono fatti di cronaca nera, o bianca (lo spettacolo che il regista mette in scena, per esempio); dei cittadini che abitano nei territori vicino al carcere, affinché lo considerino una istituzione importante di quel territorio; degli enti locali che cerchino un dialogo, che facciano rete con il carcere; e naturalmente del terzo settore, che è stato fin qui molto importante, e ora, dopo la lunga “chiusura”, fa fatica a rientrare.

È chiaro quindi che bisogna cambiare il pensiero e la prassi sul mondo penitenziario. In pratica si tratta di affrontare la giustizia penale con gli stessi criteri con cui oggi si affronta la giustizia minorile. Per capirci: giovani presenti in carcere sono oggi 416, mentre quelli affidati agli Uffici di servizio sociale per minorenni sono oltre 10mila».

aprire il carcere alla societa altrapagina mese ottobre 2022 3La senatrice Giulia Bongiorno in una intervista ha dichiarato pubblicamente che la pena va scontata in carcere. No a pene alternative. È una affermazione forte, che tuttavia rappresenta la cultura del carcere “punitivo” molto diffusa nel Paese. Come superala? «Dobbiamo fare i conti con alcuni steccati ideologici. C’è uno stereotipo che non condivido quando si parla di “certezza della pena”, come di “carcere fino all’ultimo minuto”. Certezza della pena significa il riconoscere il reato, individuare un colpevole, stabilire una sanzione, che può essere la pena detentiva, ma che deve essere finalizzata al recupero sociale del condannato, come recita l’articolo 27 della Costituzione. Certezza della pena non significa invece “rigidità della pena”; il nostro ordinamento prevede una flessibilità in questo senso che può essere aumentata, a vantaggio di tutti, come viene ampiamente dimostrato.

Vedo persone che hanno scontato la pena “fino all’ultimo minuto”, che escono dal carcere e non sanno dove andare a dormire, che non hanno un euro per mangiare, che hanno un’alta probabilità di delinquere di nuovo. C’è questa idea sbagliata, per cui chi va in carcere non esce più, come se avessimo nelle carceri solo ergastolani, che di fatto sono fra il 3 e il 4%. Le persone che hanno pene di breve periodo entrano ed escono dal carcere. E quando escono impatteranno di nuovo nel reato, se non c’è una presa in carica dei territori. Oggi ci sono 700 persone che stanno scontando la semilibertà senza rientrare a dormire in carcere in virtù dell’emergenza covid, ma che al termine dell’emergenza dovranno riprendere il percorso “classico” senza tenere conto del positivo comportamento mantenuto in questi anni. Sono una dimostrazione dell’efficacia delle misure alternative e dell’importanza di un percorso di accompagnamento verso il ritorno alla collettività».

Esiste una politica penitenziaria in Italia? Un modello di detenzione che rispetti i diritti umani e implichi un progetto di riabilitazione dei condannati?

«No, non esiste un modello di detenzione e forse questo è un limite ma anche no, nel senso che un modello rigido non sarebbe efficace. Tuttavia è ampia la differenza fra istituti di pena che propongono percorsi formativi, dove si può fare scuola, teatro, sport… e istituti che non propongono nulla. Tutti i detenuti hanno in mente la mappa degli istituti dove nessuno vorrebbe andare. Un approccio così diverso è veramente una grave criticità. La circolare sul circuito della media sicurezza appena uscita affida ai provveditorati regionali e ai direttori degli istituti di pena il compito di rilanciare le attività, per uscire dalla situazione di stallo in cui le carceri rischiano di trovarsi. Per questo la Commissione per l’innovazione penitenziaria istituita dalla Ministra e presieduta dal prof. Marco Ruotolo prevedeva una presenza lungo tutto l’arco della giornata degli operatori penitenziari. Ritengo che uno dei principali strumenti in carcere sia l’istruzione e ricordo che la scuola è l’unica attività che non è stata interrotta durante il lockdown. Uno strumento importante in un contesto dove ci sono 900 persone che si sono dichiarate analfabeti solo fra gli italiani».

Si può pensare a strutture architettoniche che siano meno “caserme” e più “case”, luoghi di vita un po’ più accoglienti?

«Servono spazi per svolgere le attività culturali, sociali, sportive, lavorative, ricreative, religiose. Spazi che spesso mancano. A questo riguardo è importante il lavoro della Commissione per l’architettura penitenziaria istituita dal Ministro della Giustizia che ha evidenziato questa esigenza anche rispetto a nuovi padiglioni di cui è già prevista la costruzione. Non si possono pensare dei reparti fatti solo di stanze di pernottamento. Non si può pensare al carcere soltanto come a un luogo detentivo: il nostro carcere non è questo».

Fece molto rumore il disegno di legge di pochi anni fa che prevedeva stanze per “incontri intimi”, come se non si sapesse che esiste una omosessualità “coatta” in carcere. È lecito parlare per i detenuti di un diritto all’affettività?

aprire il carcere alla societa altrapagina mese ottobre 2022 4«Il diritto al mantenimento delle relazioni familiari è centrale anche nell’ordinamento penitenziario. I rapporti con le famiglie sono un elemento fondamentale da valorizzare e da alimentare. Il tema della sessualità in carcere, invece, in Italia trova delle resistenze che non hanno consentito finora di prevedere tempi e luoghi per vivere la propria sessualità per chi è recluso. In molti Paesi è previsto e difficilmente tornerebbero indietro. C’è qualche esperienza di ambienti di tipo familiare in cui incontrare i propri familiari. Penso alla “Casetta” progettata da Renzo Piano nella casa circondariale di Rebibbia femminile e alla struttura simile della Casa di reclusione di Milano-Opera. È una strada da seguire».

Qual è l’importanza delle tecnologie, che sono state inserite da un paio d’anni circa per favorire i contatti con i familiari?

«Molto grande, direi. La possibilità di fare colloqui via Skype era già prevista ma applicata molto poco. Ricordo che nel carcere femminile della Giudecca, a Venezia, alcune donne seguivano da remoto i figli nello svolgimento dei compiti. Pensiamo a quanto è importante un contatto di questo tipo, che può svolgersi quotidianamente, per un bambino che non ha la presenza fisica della madre in casa. Per questo più volte abbiamo sollecitato l’uso delle tecnologie informatiche. Le videochiamate in particolare, concesse nel periodo del lockdown, si sono rivelate uno strumento di grande aiuto e conforto nell’isolamento che i detenuti hanno sofferto. Alcuni hanno rivisto la propria casa, i famigliari, i genitori, i figli, anche dopo tanti anni! L’Amministrazione penitenziaria deve superare questo timore delle tecnologie, che rappresentano al contrario uno strumento straordinario per migliorare la vita in carcere, certamente sempre con i dovuti controlli».

Non è un mistero che in carcere finiscono soprattutto “gli ultimi” della società: tossicodipendenti, alcolisti, senza fissa dimora… immigrati extracomunitari (quasi il 25%). Il carcere sembra un luogo per “punire” chi già è stato colpito dalla malasorte.

«È vero, in carcere c’è una grande fragilità sociale: Sandro Margara parlava già a suo tempo di “detenzione sociale”. Lo smantellamento del welfare ha ridotto la capacità e la possibilità di intercettare queste fragilità prima che degenerino. Il risultato è che spesso l’unica risposta che trovano è quella di tipo penale. Ma il carcere non aiuta a risolverle.

Torno allora a quanto dicevo prima sull’importanza dei territori. Le mura del carcere devono tornare a essere permeabili al mondo di “fuori” e la nostra legge lo prevede. Serve il contributo di tutte le istituzioni – scuola, sanità pubblica, Università, le Regioni per la formazione lavoro, Enti locali – della società civile organizzata». ◘

di Daniela Mariotti


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