Giovedì, 25 Aprile 2024

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Salvare la scuola di Rovigliano da un degrado indicibil

Città di Castello. Patrimonio Franchetti / prima parte.

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Sono trascorsi 5 anni da quando l’altrapagina documentò lo stato di degrado della scuola di Rovigliano. Era il 2017, il centenario della morte del barone Franchetti, e in quella ricorrenza si fecero molte iniziative per ricordare la figura dell’illustre personaggio e della moglie Alice Hallgarten. Fu anche l’occasione per riprendere contatto con una eredità culturale e istituzionale di grandissimo valore, scaturita dalle capacità creative della baronessa in campo sociale, educativo, assistenziale e dalla munificenza di entrambi i coniugi. Di quella esperienza rimangono ancora in essere la Tela Umbra, laboratorio artigianale di tessitura di altissima qualità, e un piccolo museo dedicato alle attività scolastiche praticate nelle due scuole di Villa Montesca e Rovigliano, che attirarono l’attenzione di importanti studiosi dell’epoca: su tutti, Maria Montessori. Ma come da un secolo accade, spente le luci della ribalta, una coltre di silenzio ha ripreso dimora su tutto ciò. In verità si continua a studiare la figura di Alice e il suo apporto alla cultura educativa. Ma è palpabile la sensazione che quella esperienza rimanga consegnata a quel periodo storico e alla straordinaria intelligenza di Alice. In più di un secolo dalla scomparsa dei coniugi Franchetti non c’è stata la capacità di riprendere gli spunti originali di quel progetto che si era realizzato in tre direzioni: educazione, lavoro, assistenza e soprattutto lo spirito della ispirazione originaria. La scuola di Rovigliano ha continuato l’attività didattica fino al 1981, anno in cui venne definitivamente chiusa. Da quel momento, quella che era stata la sede di una innovazione pedagogica conosciuta in tutta Europa e oltreoceano, è iniziato un degrado senza fine. Stessa sorte è toccata all’immenso patrimonio mobiliare e immobiliare dei baroni (merita ricordare che entrambi i coniugi appartenevano ad alcune tra le più ricche famiglie dell’epoca), che avevano accumulato a Città di Castello e nell’Alta valle del Tevere. Nessuna amministrazione, nessun politico e nessun intellettuale è riuscito a comprendere il valore di quella iniziativa, l’importanza che essa ha avuto per lo sviluppo di questo territorio, la ricaduta di quella esperienza educativa (aver portato la scuola a casa dei contadini) nei processi di emancipazione delle classi o categorie più svantaggiate della società. Esperienza, per sensibilità, paragonabile a quella di don Milani. Invece il patrimonio Franchetti è stato letteralmente depredato. Solo l’allora Direttore Didattico, Stanislao Segapeli, comprese ciò che stava accadendo. E in un’accorata lettera inviata al Comune nel 1990, “allarmava” l’Amministrazione comunale, sono sue parole, «di un tentativo di “esproprio” di un bene a essa (la città)  organico». «Non basta intitolare al Barone un viale: da questa pochezza non è tanto sminuito lui, quanto siamo sminuiti noi, che non possiamo godere, da eredi, del vasto e ricco patrimonio della sua cultura». E aggiungeva: «La sua eredità non consiste solo nei 45 poderi che ha lasciato ai contadini, ma è un patrimonio umano culturale, politico di tale ampiezza da poter nutrire tutti i castellani». E individuava nella gestione del suo patrimonio, da parte dell’Opera Pia Regina Margherita, l’inizio delle disgrazie e del degrado di quell’immenso patrimonio. Il colpo finale gli fu assestato dalla Regione quando “ebbe nelle sue mani il bene culturale”. Si elaborarono alcuni progetti, ma nessuno vide la luce. Quando iniziarono i lavori di restauro della Villa, prese il via quello che Segapeli aveva definito un vero e proprio “esproprio”: «…sono stati portati a Perugia per “restauro”, a camionate, tutti i mobili della Villa e delle scuole della Montesca e di Rovigliano… la documentazione dell’amministrazione agraria, i documenti scolastici, con la motivazione di un riordino e di una catalogazione. Come si può giustificare il trasferimento … per restauro, quando nella vallata… esistono duecento e più botteghe di falegnami restauratori?». Stessa cosa per la catalogazione. E concludeva: «La Montesca non è un bene ordinario: ne sono eredi tutti i castellani». Ma né amministratori né cittadini hanno saputo comprendere la vastità di quella opera né valorizzarla. Così il peregrinare dei mobili e dei documenti continua ancora: prima a Solomeo e ora a Spoleto.

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Eppure si tratta di una creazione di intensità, dimensioni e complessità paragonabile all’opera di Burri. Entrambe, nel proprio ambito, sono opere d’arte di valore inestimabile. Se Burri sta trovando la sua giusta dimensione e valorizzazione, non si può dire la stessa cosa della esperienza franchettiana e del suo immenso patrimonio. Nel 1984, con i soldi del terremoto, fu elaborato un progetto di recupero della scuola di Rovigliano. I lavori iniziarono nel 1987, ma come tutte le cose del Bel Paese, sono stati abbandonati, lasciando l’edificio a disposizione dei predatori. Dall’interno è stato portato via tutto il possibile, compresi stipiti, termosifoni, stufe, banchi, finestre, inferriate in ferro battuto, altri arredi e strumenti didattici creati dagli stessi bambini. L’edificio è stato completamente svuotato all’interno e lasciato in preda al degrado all’esterno.

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La scuola adi Rovigliano avrebbe potuto essere tante cose, ma la sua gestione è stata affidata alla Comunità Montana in virtù della presenza del patrimonio boschivo, anch’esso di grande valore, vicino alla scuola. In realtà il Comune, quale rappresentante della comunità e di tutte le sue articolazioni, comprese quelle educative, avrebbe dovuto rivendicare a sé quel bene, avvalendosi per la sua gestione delle competenze necessarie. Ma per questo, occorre un passaggio precedente: gli amministratori dovrebbero venire in processione alla scuola di Rovigliano per onorare questo monumento di storia e di cultura, studiare l’opera franchettiana, interrogarsi sulle cose da fare, convocare tutte le competenze necessarie per un progetto di recupero della struttura che ne attualizzi le finalità e ne recuperi la memoria. Solo così le eredità si onorano e si rendono lievito per ulteriori sviluppi. Altrimenti il degrado continuerà la sua opera demolitrice.

LA MIA SCUOLA DI ROVIGLIANO

Era il settembre 1975 quando ho messo piede per la prima volta nella scuola di Rovigliano insieme a mio cugino Michele. Frequentavamo la prima classe, una pluriclasse (prima, seconda e terza), assieme ad altri bambini del primo ciclo, e avevamo la grande aula al piano terreno vicino all’androne. Il secondo ciclo (quarta e quinta) era al piano superiore. La mia aula era grande e luminosa, con i banchi tutti diversi, un po’ vecchi e un po’ nuovi, e la cattedra, appoggiata sopra una base di legno, era più alta rispetto ai banchi. D’inverno non era molto calda. C’era una stufa a legna, ma non riusciva a scaldare tutto l’ambiente. La mia maestra si chiamava Teresa Bendini: buonissima e molto tranquilla, l’opposto del mio carattere vivace e curioso. Con lei ho imparato a scrivere e a leggere velocemente.

Nella scuola c’erano tanti ambienti: in alcuni si poteva accedere anche noi bambini, in altri potevamo entrare solo in determinate occasioni. Al piano terreno c’erano anche i bagni e il refettorio, che utilizzavamo per la ricreazione quando non potevamo andare fuori. In un’altra stanza erano stati messi degli armadietti che contenevano carta, carte geografiche, figure geometriche… In quelle due aule, oltre agli arredi scolastici, erano presenti anche le immagini di Alice e Leopoldo Franchetti appese al muro, e al centro, più in alto, c’era quella di Giuseppe Garibaldi. Quando uscivamo a fare passeggiate, raccoglievamo fiori e li mettevamo davanti a queste immagini. Ricordo un altro ambiente con una parete piena di vetrine e al loro interno animali imbalsamati o in contenitori di vetro con alcool. Appoggiate alla parete opposta, delle cassepanche contenevano tanti lavori fatti da bambini che mi avevano preceduto. Lì dentro ho trovato manufatti di piccoli rastrelli, scale di legno, cestini e altri attrezzi che usavano i contadini e il nome di chi li aveva realizzati. Rimasi sorpresa nello scoprire che su uno di questi c’era il nome di mio nonno Luigi. Vi trovai anche una divisa di garibaldino con tanto di cappello rosso.

Quando sono passata al secondo ciclo, ci siamo spostati al piano superiore e ho cambiato maestre: in quarta, Giovanna Corsi Menchi a cui ero molto affezionata perché aveva il mio stesso nome e ci faceva fare il teatro alla presenza del Direttore Luigi Angelini; in quinta, Anna Maria Galletti che ci ha portato agli esami finali.

A fianco dell'aula c'era il salottino dove le maestre prendevano il caffè o ricevevano altre persone. Era arredata con bei mobili e divani di broccato rosso. Di fronte a questa, l’appartamento della bidella, la signora Vera, tanto brava e qualche volta strana per noi bambini. Le nostre giornate passavano velocemente tra studi sui libri e uscite didattiche nei boschi per osservare la natura. La mattina andavo a scuola col pulmino e la sera tornavo a piedi.

Questa scuola è stata frequentata da tutti i miei antenati: mio nonno, le sue sorelle, il mio babbo, mia zia e tutti i bambini delle campagne circostanti. Mio nonno mi raccontava che la mattina, quando arrivavano a scuola, per prima cosa si lavavano con acqua calda, poi facevano colazione e subito dopo incominciava la lezione, teorica e poi pratica, con tanti piccoli esperimenti, applicando il metodo Montessori. E siccome i bambini erano molti, alcuni venivano la mattina, altri il pomeriggio. Crescendo, mi sono appassionata alla storia dei baroni e ho letto molti libri su di loro. In essi ho trovato anche il testamento con cui il barone cedeva i suoi possedimenti ai contadini. Tra gli eredi era citato anche il mio bisnonno, a cui veniva donata la casa dove attualmente abitano i miei genitori. Attraverso i loro racconti ho imparato a capire quanto bene hanno fatto i baroni ai figli dei contadini. Ma ora di tutto ciò non è rimasto nulla: la scuola è stata chiusa perché non c’erano più bambini; negli anni '80 è stata “restaurata” e poi abbandonata.

Tuttavia per me è sempre emozionante entrare in quel luogo. Ancora oggi con la mente riesco a rivedere la disposizione dei banchi, della cattedra, della lavagna, i quaderni, le carte geografiche, i mobili di cui ora non c’è più traccia. E soprattutto quelle immagini dei baroni Franchetti e di Giuseppe Garibaldi affissi alla parete. Molti sono venuti, tanti hanno promesso, ma tutto è stato inutile.

Giovanna

 

di Anotnio Guerrini (servizio fotografico a cura di Fazio Perla)


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