Domenica, 06 Ottobre 2024

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Jenin anno zero

SPECIALE PALESTINA. Reportage di Francesca Borria.

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Ti sembrano mozziconi di sigaretta, per terra. Sono bossoli di M16.

Jenin è auto senza targa tra case in cemento dai muri scalcinati, su cui sono dipinti paesaggi di spiagge, e laghi e boschi, come finestre. Come vie di fuga. Le strade sbarrate da cubi di calcestruzzo, lastre in ferro, filo spinato. Bombole di gas. A trent’anni dagli Accordi di Oslo, è qui che i palestinesi hanno deciso di tornare alle armi, in questo 2022 che è l’anno con più morti dalla Seconda Intifada. Ma perché proprio ora?, chiedi, e ti rispondono: E perché no? “Basta guardarti intorno”, dice Naeem Zubeidi, 27 anni. “Ho ritrovato una foto con i miei amici di sempre: e sono l’unico ancora vivo”, dice.

Non sa che sono le sue ultime ore.

Ha alle spalle il ritratto di Raed Hazem. Il primo. Quello che l’8 aprile ha sparato contro un bar di Dizengoff Street, nel centro del centro di Tel Aviv. Quello da cui è ricominciato tutto. Ma il ritratto accanto, è il ritratto di Juliano Mer-Khamis.

È il ritratto di un israeliano.

In questo bilocale del refugee camp in cui è stata fondata l’Intifada dell’Unità è stato fondato anche il Freedom Theatre. Erano gli anni della Prima Intifada. E fu aperto da Arna Mer. Ebrea. Finì in macerie durante la Seconda Intifada, per essere poi ricostruito da suo figlio. Juliano Mer-Khamis. E dall’unico dei suoi amici di sempre ancora vivo. Zakariya Zubeidi. Diventato intanto il comandante delle Brigate al-Aqsa. E il ricercato numero uno. Per il Freedom Theatre lasciò le armi, e a lungo, Jenin è stata un viavai di artisti di tutto il mondo. Fino a quando, però, Juliano Mer-Khamis non è stato ucciso: da un assassino mai individuato. Era il 2011. E giorno dopo giorno, si è sgretolato tutto. Di Zakariya Zubeidi si è sentito parlare di nuovo dieci anni dopo: dopo una laurea e un master in Sociologia, era stato arrestato un’altra volta. Ed era appena evaso scavandosi un tunnel con un cucchiaio.

Per venire a fondare le Brigate Jenin.

Ora è in carcere. E il punto di riferimento è Jibril Zubeidi, 36 anni. Suo fratello. “Non c’è stato un evento specifico. Il detonatore, qui, è il contesto. L’estrema destra in Israele è sempre più aggressiva: e l’Autorità Palestinese sempre più alla deriva”, dice. Il presidente, Mahmoud Abbas, ha 87 anni, a fronte di un’età media di 21. E il suo mandato è scaduto nel 2009. Le ultime elezioni sono state nel 2006. “Vorrebbe che consegnassimo le armi. Ma non è neppure capace di riavere da Israele i corpi dei morti. Che restano negli obitori per mesi, come strumento di pressione e baratto. Cosa si illude di avere per la vita dei vivi?”, dice. “Ho tentato tutto. Ho provato a studiare, ma mi arrestavano in continuazione. Ho provato ad aprire un’officina, ma mi è stata demolita. Ho provato ad andare via, ma mi hanno negato un visto. Inviate i Caschi Blu: e mi fermerò. Ma non parlatemi di futuro. Non parlatemi di road map e trattative e processi di pace. Perché il mio problema è adesso”.

Sono ventenni come mille altri. Le Blundstone, la felpa con il cappuccio. E colpiscono. Molti hanno una laurea. I modi gentili. Intuisci che sono wanted solo perché non hanno l’iPhone, ma un Nokia. Per i droni. E invece sono jihadisti. Non nel senso di al-Qaeda. Anche perché non sono contro Israele in sé, ma contro l’occupazione. Sono jihadisti in senso letterale: jihad, l’impegno per quello che è giusto - quello che si ritiene essere giusto. Combattere è una scelta di principio, indipendentemente dalle conseguenze. Dal risultato.

Non gli importa sfidare una potenza nucleare.

Avere le ore contate.

E per questo sono così pericolosi. Perché sono pronti a tutto: e anche per niente.

E soprattutto, perché sono stanchi di Fatah e Hamas.

Non rispondono che a se stessi.

Jenin è la città più a nord della West Bank, è a 60 chilometri da Ramallah. Tre ore, o quattro, cinque, sette: dipende dai checkpoint. E non ha niente. Un parco, un cinema, un campo da calcio. Uno spiazzo per un concerto. Solo i ritratti dei martiri, come si dice qui, ovunque: le foto di chi è stato ucciso - o ha ucciso. Chiedi dove si va, per stare un po’ con gli amici: e nessuno capisce la domanda. Non ti orienti con Google Maps, qui, ma con Wikipedia. Una è la strada in cui hanno sparato a Shireen Abu Akleh, di al-Jazeera, un’altra quella da cui entrano i carrarmati, un’altra quella da cui a volte, ancora, riaffiorano le ossa del 2002 - quando il refugee camp fu raso al suolo. Jenin è tutta così. Jenin è il simbolo del fallimento di Oslo: negoziare, ma intanto costruire uno stato, delle istituzioni - una vita normale. “In questi anni ogni centesimo è andato a Ramallah. E comunque, ora hai le medicine nelle farmacie, sì: ma non puoi permettertele. Hai l’università: ma non trovi lavoro. Perché sotto occupazione, non c’è economia possibile”, dice il sindaco, Nidal Abu-Saleh. Perché ora hai un sindaco, sì: ma il municipio è senza elettricità.

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E in più, i fondi internazionali si sono dimezzati. Adesso sono tutti per l’Ucraina.

In un certo senso, Jenin interessa più agli israeliani che ai palestinesi. Perché è a tre ore da Ramallah, dimenticata da tutti: ma è a dieci minuti da Jalamah. Dal confine.

Ed è la via più breve per gli attentati suicidi.

Il primo fu nel 1994. E fu la reazione di Hamas a Baruch Goldstein - quello che sparò nella moschea di Hebron. Oggi Itamar Ben-Gvir, il leader dell’ultradestra a cui Netanyahu sta per affidare il ministero della Sicurezza, ha a casa il suo ritratto.

Oggi a Jenin in pieno giorno, in pieno centro, da un furgoncino come mille altri ti piombano giù le forze speciali. Sembrano operai venuti a riparare un tubo, un’antenna: sono gli israeliani venuti ad arrestare un ricercato.

Oggi chiunque, qui, può essere in realtà il nemico.

Il Freedom Theatre ha risposto all’omicidio di Juliano Mer-Khamis lasciando la porta sempre aperta. La luce sempre accesa. Ma non c’è altra ONG, è l’unico rimasto. Ed è l’ombra di se stesso. “La resistenza ha molte forme, e la nostra, qui, è sempre stata resistenza culturale. Guardandoti su un palco, guardandoti dall’esterno, capisci chi sei: e se sei quello che vuoi essere”, dice Mustafa Sheta, il direttore. “Perché battersi contro l’occupazione per poi avere Mahmoud Abbas o la Sharia è inutile”. Pensa il Libano, dice. Israele si è ritirato, ed è un disastro più di prima. “Ma nessuno ragiona un momento. La resistenza armata è un diritto, certo, è legittima, ma la domanda è anche: ha senso? Perché non è solo questione di restare sulla propria terra: ma di restare restando se stessi”.

Adnan Naghnaghiye è il tecnico del Freedom Theatre, e la sua memoria: è qui dal primo giorno. E dice: è come essere tornati indietro. Come essere all’anno zero. “Ma nella Seconda Intifada era tutto più strutturato. Avevi Fatah e Hamas. E una strategia. Mentre ora non segui Fatah o Hamas, segui Instagram. Segui TikTok. Ora chiunque può decidere che ne ha abbastanza: e agire”, dice. E chiunque significa davvero: chiunque. Raed Hazem, quello di Dizengoff Street, era del Freedom Theatre.

Oggi chiunque, in Israele, può essere in realtà il nemico.

Non c’è organizzazione: è insieme punto di vulnerabilità e di forza. “Perché così, è difficile fermarli: ma è facile manipolarli. Da dove arrivano tutte queste armi? Chi paga? E che agenda ha?”, dice. Prima o poi, Mahmoud Abbas verrà meno. E tra Hamas e Fatah sarà la resa dei conti. Sono divise, e divise al loro interno. Con divisioni che rispecchiano le divisioni tra l’Iran, il Qatar, gli Emirati. Gli Stati Uniti. “Anche mio figlio è in carcere. Ma onestamente, meglio così”, dice. “Non voglio che sia ucciso. Ma né che uccida”.

Dentro, intanto, sono in visita due inglesi. Due attiviste. Non hanno idea di chi sia Zakariya Zubeidi, non si sono neppure lette su Google la storia del Freedom Theatre. Però tifano per la resistenza armata. “Tanto poi moriamo noi”, dice uno degli attori a mezza voce.

“In realtà, non c’è niente di nuovo. La svolta a destra di Israele è iniziata con l’assassinio di Rabin”, dice il governatore, Akram Rajoub. “Israele non è più forte di sempre. Il contrario. Ha votato cinque volte in quattro anni. Netanyahu ha promesso di tutto ai coloni, perché senza i coloni, che dagli Accordi di Oslo, sono tre volte di più, non ha la maggioranza. E manterrà la parola per mantenere la maggioranza”. Cercano la nostra reazione, dice: è una trappola. “Ma tanti, qui, non capiscono. E sparano contro i carrarmati. Non gli fai un graffio. E se anche avessi degli RPG: Israele ha gli F35”. There’s no head, dice. Non c’è guida, ma anche: non c’è testa. Perché militarmente, non c’è partita. “Ma guardano le bandiere palestinesi ai mondiali in Qatar, e pensano che il mondo è con noi. Che vinceremo”.

Con la Seconda Intifada, si è visto come è finita, dice. E però poi dice: Ma come posso frenarli? Che alternativa posso proporre? Che futuro?

Non è ancora sera. E nella West Bank oggi i morti sono già cinque.

Sono le 2:04 quando all’improvviso, un’esplosione sbianca la notte, e i muezzin chiamano alle armi dai minareti. Si accendono rapide tutte le luci, una a una, si sveglia tutta Jenin mentre un convoglio israeliano si fa largo dalla strada principale, e subito, il fuoco di risposta si abbatte sui blindati, che imperturbabili, neppure deviano, neppure accelerano, mentre si svegliano tutti, tutta la West Bank, tutta Gaza, e come una sconfinata retrovia, i palestinesi si passano informazioni su Telegram, dove spostarsi, dove nascondersi, dove mirare, tutti sentinelle, tutti staffette, chi intravede chi nell’alveare dei vicoli - e per un’ora, è battaglia. Lo scoppiettio degli spari inframmezzato solo dalle sirene delle ambulanze.

E a ogni caduto, il coro. Allah Akbar.

Sono tutti davanti l’obitorio, il mattino dopo. Lividi. Fissano l’asfalto, mentre i feriti zoppicano via con un occhio pesto, la testa fasciata. Quelli che la notte erano i nuovi martiri, i nuovi eroi da celebrare, ora sono solo nuovi cadaveri.

Jibril Zubeidi è scosso. Uno è Naeem Zubeidi. Suo cugino.

Mi guarda. E dice solo: Ma poi verrà mio figlio, e il figlio di mio figlio. ◘

di Francesca Borria


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