Il lavoro dei campi, il teatro, la lettura del giornale. E poi il confronto con gli psicologi e con gli esperti che di volta in volta venivano chiamati a portare la propria esperienza, il ruolo dei ragazzi più grandi che facevano da maestri ai più piccoli. I viaggi all’estero, il film, i giornalini realizzati dai ragazzi. Parlare del Doposcuola di Riosecco, a cinquanta anni dalla sua nascita, significa ripercorrere la storia di uno degli esperimenti più creativi ed evocativi tra quelli costruiti al di fuori delle strutture ufficiali dell’istituzione scolastica. Nei primissimi anni ’70, quando è ancora viva l’eco della Scuola di Barbiana, la scelta di radunare i giovani del quartiere attorno a un’intuizione educativa inconsueta rappresentò uno stimolo per l’intera città. Fu subito acceso, per esempio, il confronto (e lo scontro) con la scuola ufficiale che, secondo don Achille e i suoi ragazzi, non riusciva a rispondere ai bisogni ultimi delle persone e a promuovere una crescita autentica dei giovani. La distanza tra i professori, ancorati a ruoli e metodiche giudicate superate, e le esigenze mutate dei ragazzi apparivano incolmabili. La scuola dell’obbligo spesso non faceva che acuire il divario tra le classi sociali e talvolta, come si legge in Lettera a una professoressa, rischiava di trasformarsi in “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Ma non fu solo la scuola a guardare con diffidenza le scelte di don Achille. Anche il contesto locale, le famiglie e gli ambienti ecclesiastici accolsero con qualche sospetto la scelta di quel prete di riunire i giovani attorno a una scuola che – come ci ricorda lo stesso don Achille - aiutava “i ragazzi a esprimere se stessi, a tirar fuori dalla loro vita la ricchezza di intuizioni inespresse, di pensieri, di osservazioni che ognuno porta dentro di sé”.
Il Doposcuola è una scuola
Ha quasi il sapore di un manifesto quanto si legge nel Giornalino n. 1 del Doposcuola di Riosecco (1976): “Il Doposcuola è nato per creare un’alternativa alla vita del paese che offre sempre i soliti divertimenti che ci portano a non vedere più in là del bar e delle carte. Il Doposcuola è un tentativo di aiutarci a capire la nostra vita e il mondo in cui viviamo con tutti i problemi che ha. Il Doposcuola non è un luogo di incontro per divertirsi; vi possono partecipare tutti purché vogliano condurre un lavoro serio insieme agli altri. Il termine “doposcuola” non è esatto, perché per doposcuola molta gente intende un luogo dove si fanno solo i compiti. Per noi invece è una scuola dove si cerca di formare delle persone che un domani nella società non sfruttino e non se ne freghino di tutto e di tutti ma che aiutino gli altri e che affrontino seriamente tutti i problemi della vita”. E allora la vicenda del Doposcuola è anche una storia che parla di generazioni di ragazzi che lì hanno trovato un luogo per essere accolti con rispetto e stima, che hanno incrociato persone pronte a battersi per loro. Quanti timidi, emarginati, svogliati. Quanti ragazzi con disabilità. Quanti “somari” hanno trovato una loro dimensione di vita e sono diventati delle persone integre, magari dei maghi nella meccanica e anche nel rispettare le idee degli altri, degli esperti nel coltivare la terra e anche nell’assumersi delle responsabilità, nell’insegnare agli altri, nel decifrare il presente e nel culto della lealtà, della generosità politica. Quanti “scarti” recuperati alla vita consapevole e di relazione.
Non un modello, ma un sentiero
Oggi possiamo dire che per le sue caratteristiche educativo-pedagogiche e per la sua longevità quella esperienza rappresenta una testimonianza di vie percorribili e di soluzioni non velleitarie. Non si tratta – in questo caso, come in altri che negli anni si sono manifestati nel panorama nazionale – di esperienze riproducibili tout court. Lo stesso Achille Rossi è chiaro nel suggerirci la dimensione della sua proposta, che consiglia di interpretare non come un modello, ma come un sentiero. Da esse è possibile tuttavia ricavare, approfondendole e contestualizzandole, le intuizioni ideali che le hanno ispirate, l’antropologia educativa di base che le ha sostenute, i metodi che ne sono scaturiti, le dinamiche culturali e sociali che hanno innescato. In questo senso esse possono diventare indicatori di rotta, capaci di animare da dentro il personale e originale cammino di quanti operano nelle strutture educative.
Affrontare le sfide dell’oggi
Sarebbe un errore tuttavia pensare di preservare quell’esperienza fissandola in una bacheca, come fosse un cimelio, rivestito di una sacralità che non le si addice. Più proficuo appare invece il tentativo di mettere quell’ispirazione a confronto con le vicissitudini e le scoperte del tempo presente, coglierne i significati e il valore evocativo. Senza cedere alla nostalgia, ma ancorandosi alle sfide dell’oggi.
Quell’esperienza tra l’altro è ancora attiva e tra tutte le realtà di scuola popolare e alternativa sorte negli anni in Italia è sicuramente la più longeva. Da quel 1971 sembra tuttavia trascorso un secolo: mutate sono le condizioni economiche e culturali del Paese, globalizzate le relazioni, diversi i ragazzi, più dinamica la società e impetuose le trasformazioni sociali. Persino la scuola è cambiata, seppure non sempre nella giusta direzione. Resta ancora legata infatti a una concezione trasmissiva del sapere, alla rigidità burocratica di programmi e adempimenti. Ma, certo, non è più la scuola refrattaria alle sollecitazioni che provengono dall’esterno e impermeabile al confronto.
La generazione degli iperconnessi
D’altro canto, anche i giovani non sono più gli stessi. Nella società liquida e iperconnessa sembrano aver smarrito la funzione di stimolo e interesse che caratterizzavano le generazioni del secolo appena trascorso. Il maestro Marco Lodoli ha provato a raccontarla così: “Questa è la stagione del desiderio, dell’onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato. I ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più”. E allora “il futuro, inteso nel migliore dei modi, è un futuro solitario e individuale, non c’è più un’idea di futuro collettivo, comunitario, generale o più vasto”. Anche la capacità di esprimere rabbia e ribellione sembra assorbita da una sorta di“pensiero unico”, quello “del centro commerciale, della maglietta firmata, del tatuaggio”: una sorta di “colonizzazione dell’immaginario”favorita dall’avvento dello smartphone, che non è solo una normale trasformazione tecnologica, ma coinvolge il tessuto cerebrale, la struttura psichica e affettiva.
A fronte della suggestione culturale perseguita dal sistema di comunicazione social e massmediale, a cui nessuno è più in grado di sottrarsi, è arduo il compito di chi è chiamato a tracciare i contorni di una nuova antropologia liberante. Non è possibile trovare risposte a questi bisogni nelle retoriche costruzioni di prospettive apocalittiche, né nella sciagurata indifferenza che talvolta accoglie l’avanzare di nuove generazioni di giovani. Lo scenario è radicalmente cambiato. Sono altrove gli “ultimi” che aveva davanti don Milani, sono altre – e più insidiose - le povertà da affrontare. E, come sempre, non ci sono ricette prêt-à-porter da riprodurre in serie.
La sfida di rimettersi in gioco
In un contesto così mutato più difficile diviene il ruolo delle agenzie educative. “Non c’è più la spinta umana che ha mosso l’educazione di Freire, di don Milani. Sembra di stare perennemente su una pista d’atletica: chi c’è c’è e chi non c’è non c’è”, ammette lo stesso don Achille in un’intervista di qualche anno fa a Mosaico di pace. Queste mutazioniallora spingono tutte le agenzie educative, compreso il Doposcuola di Riosecco, ad un ripensamento e ad un affinamento degli strumenti metodologici. E nessuno può coltivare la presunzione dell’autosufficienza. Occorre piuttosto un grande sforzo interpretativo, prima ancora che metodologico, per trovare gli strumenti in grado di affrontare il “virus dell’individualismo” che fa della riuscita personale la misura di tutte le cose e sembra relegare i giovani nel limbo della subalternità.
Anche il Doposcuola dunque è chiamato a nuove sfide. Partendo dai ragazzi, come cinquant’anni fa, ma sapendo che nel frattempo tutto è cambiato e le vecchie proposte e gli approcci consolidati potrebbero non riuscire a raccontare le suggestioni dei tempi passati. La complessità del presente deve necessariamente indurre allo sforzo di pensieri nuovi, senza fermarsi alla testimonianza, al compiacimento o alla nostalgia.
Da custodire, come fondamentale, persiste l’ispirazione che tanta fortuna ha avuto in generazioni di ragazzi che hanno trovato al Doposcuola di Riosecco un luogo di emancipazione e riscatto dove ricevere credito e stima.
Da trattenere rimane, come direbbe Moira Sannipoli, la ricerca inesauribile di spazi frequentabili tra il “già dato” e il “sempre possibile”. Quell’ispirazione che Achille sembra non stancarsi di affermare: “L’educazione è un’opera essenziale. Richiede un fondamentale rispetto per i ragazzi che crescono. Camminare insieme a loro significa non andare da nessuna parte senza di loro, con profonda attenzione alla loro libertà. Al tempo stesso proponiamo, critichiamo, lottiamo appassionatamente perché questa libertà non si riduca a un egoistico e solitario privilegio. In questa tensione tra passione e rispetto, tra proposta e ascolto, fra presenza e distacco il lavoro educativo diventa un’opera d’amore”. ◘.
di Oliviero Dottorini