«Nella mia introduzione (al libro Camminare insieme per mezzo secolo) non a caso avevo posto come titolo “Se è corretto pensare che questo sia un doposcuola”. Perché quella dovrebbe essere la scuola, e non dovrebbe essere un doposcuola…». Così esordisce Francesco Tonucci, pedagogista, ricercatore del Cnr, scrittore, disegnatore, ideatore de La città dei bambini e di tante altre esperienze educative, da noi stimolato a una riflessione sull’esperienza educativa di don Achille Rossi.
Perché dopo 50 anni di doposcuola di Riosecco, dobbiamo guardare a questa esperienza come a un sentiero educativo da percorrere ancora?
«Perché purtroppo la scuola di cui questa esperienza è doposcuola non è mai cambiata. C’è un paradosso clamoroso! Pensate a come era la camera dove siete stati bambini, e pensate alla camera dove vivono i vostri figli oggi. E poi pensate alla classe di prima elementare o chiedete ai vostri genitori come era la vostra classe alla prima elementare. L’effetto è sconcertante, perché le camere, le case, le abitudini, i modi di viaggiare, di informarsi, di comunicare sono cambiati, solo la scuola non è cambiata».
Perché la scuola non riesce in questo compito che sembrerebbe naturale?
«La scuola che ci offrono i governi contemporanei, che i nostri figli e i nostri nipoti stanno frequentando oggi è una scuola vecchia, incapace, inadeguata, fra l’altro è una scuola – ed è questa la tesi che io sto sostenendo nell’anno del centenario della nascita di Mario Lodi – illegale, cioè non corrisponde né alla Costituzione, né alla Convenzione dei diritti dei bambini, né alle norme contenute nelle indicazioni programmatiche del Ministero dell’Istruzione, e quindi è una scuola legata a una tradizione che non cambia e che fa dire in maniera sconcertante: “si è sempre fatto così”».
In 50 anni il doposcuola di Riosecco ha accolto tre generazioni di giovani, eppure è passato come un sottomarino impercettibile alle agenzie educative.
«Le agenzie educative, se avessero percepito il valore della esperienza di Riosecco, avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze. La nostra esperienza e l’esperienza che Don Achille ha sviluppato in questi 50 anni è una denuncia della scuola. Lui non lo ha fatto perché ha letto la sua attività come un servizio non tanto alla scuola ma ai ragazzi. Di fatto, però, la parrocchia ha dovuto assumersi la responsabilità di offrire dei tempi e degli spazi perché i bambini di varie generazioni potessero vivere la scuola senza i traumi che normalmente la scuola produce, specialmente nelle classi sociali più svantaggiate. Questa è una denuncia durissima, così come una denuncia è stata quella di Don Milani in maniera più esplicita: Barbiana si è schierata contro la scuola di Stato, contro la scuola che aveva bocciato, che aveva ricacciato sui monti dei ragazzi che con fatica avevano osato scendere dai monti per rischiare questa avventura di frequentare una scuola pensata per i borghesi. Il problema è che nella sua parte più significativa, l’esperienza di Riosecco era alternativa alla scuola, non era di supporto alla scuola.
Più volte hai affermato che la scuola dovrebbe valorizzare la vocazione dei bambini. Mi chiedo come possa, una istituzione strutturata in forma piramidale, mettere al centro ogni bambino, se non capovolgendo la piramide stessa.
«L’ho fatto perché nei documenti che ho richiamato si dice che l’obiettivo dell’educazione è lo sviluppo della personalità dei bambini, e non tanto fornire informazioni, nozioni per garantirsi che loro le acquisiscano in maniera sufficiente. Da questo modo di operare si deduce che il compito della scuola e della famiglia è dare a tutti una formazione di base modesta, mediocre, ma appunto sufficiente per poter passare ai livelli superiori. Il pieno sviluppo della personalità è qualcosa che non si può offrire da fuori, in un compendio di opzioni e di contenuti che sceglie qualcuno a livello nazionale, ma comunque sarebbe lo stesso se lo scegliesse il maestro per conto suo. Deve venire da dentro la personalità».
Si tratta di una affermazione molto forte.
«La Convenzione dei diritti del bambino spiega che l’educazione non mira alla mediocrità, ma all’eccellenza; non parla di sufficienza, ma di sviluppo delle capacità del bambino fino al massimo possibile. Allora ben venga un’esperienza come quella di Riosecco nella quale i ragazzi possono recuperare queste loro caratteristiche che la scuola dimentica, perché lì, oltre a fare i compiti, hanno spazio attività operative pratiche: l’orto, il laboratorio, le esperienze, ecc. I bambini che hanno attitudini e capacità specifiche personali, a scuola come fanno?».
Ma oggi i giovani devono affrontare l’insidia delle nuove tecnologie, è inutile girarci intorno. E la realtà virtuale li condanna a una nuova forma di solitudine tecnologica.
«La pandemia in qualche modo ha assolto la tecnologia, perché l’ha fatta diventare una salvezza dall’isolamento, ed è vero, ci ha aiutati molto. Io la sto ancora utilizzando, però effettivamente la solitudine tecnologica è un enorme problema che abbiamo di fronte, perché vuol dire che in un mondo sempre più complicato, i bambini crescono con questo mezzo molto duttile, molto veloce, che ti permette di fare e di sapere molte cose in modo facile, per cui offre una vita semplificata in cui non devi andarti a cercare le rogne di una vita reale nella quale devi fare un sacco di cose, perché quelle te le fa lui:, allora perché devi preoccuparti di andare a cercare una ragazza, devi vestirti, devi organizzarti, e poi non sai se sarai capace, sei timido, chissà come reagisce».
Si perdere di vista la vita reale.
«Se invece l’approccio si fa virtualmente, il rischio è minore, perché, male che vada, si chiude il cellulare e non ci si pensa più. Questa cosa sta succedendo specialmente nell’adolescenza; i ragazzi e le ragazze preferiscono evitare il mondo reale e vivere in questa dimensione, assolutamente nuova, proprio perché la pandemia avendo isolato fisicamente le persone, ha sviluppato la ricerca di una dimensione virtuale».
Un nostro convegno dedicato alla educazione aveva questo titolo: L’educazione, l’arte di educare alla vita. Tutti dovremmo essere un po’ esperti in questa arte: genitori, insegnanti e politici.
«Rispondo con un’altra domanda: perché esistono i compiti? Perché nell’educazione di una persona ci sono delle lacune, si risponde. Ma se l’obiettivo della scuola fosse quello di formare per la vita, ciò non dovrebbe creare un disagio, anzi dovrebbe aiutare a capire che quell’alunno per quella o altra disciplina non ha interesse; quel rifiuto sta mostrando dove vuol andare, e questo è l’aspetto più interessante sul quale dovrebbe indagare un educatore. E invece la scuola cosa fa?: lo bombarda su quello che lui rifiuta, su quello dà i compiti per casa, su quello chiede a lui e alla famiglia e, indirettamente alla possibilità eventuale di aiuti esterni a pagamento, di intervenire per recuperare una cosa che lui rifiuta, e tutto avviene quasi con spirito punitivo.
Se i genitori e gli insegnanti facessero un’attenta analisi di quello che i bambini rifiutano perché non piace loro e quello che amano e a cui si applicano, capirebbero che potersi dedicare a ciò che li gratifica di più sarà il destino della loro vita, saranno felici e saranno nelle condizioni migliori per dare il loro contributo alla società». ◘
Redazione Altrapagina.it