Domenica, 10 Novembre 2024

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Pasqua 1940

Cronaca d'epoca.

silvia romano2

Tra poco più di una manciata di giorni sarà Pasqua. Questo è il ricordo di una Pasqua lontana, persa nel 1940. La sera del giovedì santo si legavano le campane in segno di lutto per la passione e morte di Gesù Cristo. Per annunciare le funzioni religiose, i campanili muti venivano sostituiti dal suono delle “treccole”, un rudimentale e antico strumento: una tavoletta di legno con fissati due pezzi di ferro snodabili che col movimento della mano battono sul legno producendo uno strano suono «trecchète, trecchète». Ecco perché il nome treccole, che soprattutto i giovani, battevano per le strade e i vicoli fino al giorno della Risurrezione, quando le campane venivano sciolte. Quella Pasqua che sapeva di crostello, ciaccia con il formaggio, ciaccia dolce, torcolo, ciaramia, pasta margherita… odori e profumi che uscivano dai tanti forni che allora esistevano a Città di Castello. “Dolci” che venivano preparati in casa dalle donne che poi li portavano a cuocere nel forno di Urbano in via del Luna, da Pende a Sant’Antonio, da Cessa nella piazzetta dell’Incontro, da Pazzaglia in via Tre nonni, da Traversini alla Mattonata, da Soldi al Prato. Erano tanti tegami e teglie posti dentro il forno in una confusione indescrivibile. Ogni donna cercava il suo “dolce” con un biglietto col suo nome appiccicato al manufatto, che non sempre lievitava: allora erano guai per tutti, anche per il fornaio. Intanto nel vicolo passava “l’acqua santa”. Si diceva così per la benedizione delle case. Si aspettava l’arrivo del prete, le porte di casa spalancate. Si teneva d’occhio il benedicente: “è arrivato a casa Pirazzoli”… “è a mezzo vicolo a casa della Sunta”… Una strana quiete scendeva nel vicolo. Un silenzio impastato da tanti rumori. E don Giuseppe, detto “tabachino” perché fumava il sigaro, con cotta e stola, accompagnato da due chierichetti entra nell’ultima casa del vicolo. Sale le scale don Giuseppe; il fruscio della tonaca nelle scale troppo strette, fa da sottofondo a un borbottio e una preghiera. In casa, quattro uova sopra il tavolo della cucina attendono di essere benedette assieme a un rametto di olivo portato al centro del letto nella camera, sopra una coperta di color dell’oro.

Il giorno dell’acqua santa è particolare. Forse l’aria che sa di vaniglia, ma non tanto. Forse le brocche di rame lucidate con la "cartavetra" che luccicano al sole, o l’odore di petrolio dato al portone di casa che si mescola a quello del ranno per pulire i pavimenti. Benedice, don Giuseppe, le uova e il ramo di olivo sopra la coperta color dell’oro. Il sabato di Pasqua si sciolgono le campane. Dal loro suono si riconoscono le chiese. Le rondini sfrecciano con repentine girate attorno al campanile della chiesa della Madonna delle Grazie. Domani è Pasqua. Si mangiano la mattina le uova sode, facendo attenzione a non disperdere il guscio benedetto. Non c’è più don Giuseppe che fuma il sigaro, che ha battezzato, cresimato e raccomandato l’anima di intere generazioni del rione di San Giacomo. Non c’è più quella giovane – oggi sarebbe nonna – che aveva i capelli color dell’oro, come quella coperta, anche lei persa. Rimangono solo le “treccole” riposte in un cassetto della sacrestia. ◘

di Dino Marinelli


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